18/12/2019

ARSEN LUPIN, IL LADRO GENTILUOMO DI LEBLANC


Maurice Marie Émile Leblanc (1864 – 1941) fu uno scrittore francese. Nato in Normandia, dopo aver abbandonato gli studi, si spostò a Parigi, dove iniziò a scrivere racconti gialli per i principali periodici francesi. Le sue opere riscuotevano un discreto successo ma non abbastanza e con esse riusciva a malapena a sopravvivere. Nel 1905 creò il personaggio di Arsen Lupin e con lui arrivò la fama. Era il periodo in cui Conan Doyle si imponeva sulla scena europea con il “suo” Sherlock Holmes e Lupin fu visto come una specie di eroe “al contrario”, quasi un antagonista del grande investigatore britannico. Già, perché Lupin era un ladro, anzi, un “ladro gentiluomo”, come lo definiva il suo autore, che non aveva niente a che fare con i comuni ladri fino ad allora conosciuti. Sembra che Leblanc si sia ispirato per questo suo personaggio alla vita di Alexandre Marius Jacob, anarchico francese e ladro geniale. Elegante, intelligente, colto, affascinante, amante dell’arte, delle
donne, del lusso e del gioco, maestro del trasformismo e del furto, abile negli sport e nelle arti marziali, con uno spiccato senso dell’humor, Arsen Raoul Lupin si può definire un moderno Robin Hood. I suoi furti, infatti, sono sempre commessi con astuzia e abilità, senza mai ricorrere alla violenza (da lui aborrita) e sempre ai danni di persone facoltose, inette e prive di scrupoli, arricchitesi sulle spalle di altri, in modo disonesto. Spesso, inoltre, ricorre alle sue “doti” per aiutare qualcuno che ha subìto un torto e cerca in lui un aiuto per avere giustizia. La sua incredibile capacità di travestirsi e di calarsi nei diversi “personaggi” che di volta in volta interpreta, lo aiutano a mettere a segno i suoi colpi, senza che nessuno lo riconosca. Ogni grande eroe per quanto solitario ha comunque qualcuno al suo fianco. E infatti accanto a lui troviamo sempre il fido Grognard, maggiordomo, autista, segretario e tuttofare, che chiama Lupin “il principale” ed è l’unico a conoscere il suo vero volto. È tranquillo, preciso e meticoloso…e sa essere molto discreto sulla intensa vita amorosa di Lupin! Ovunque si trovi ha sempre pronta una bottiglia di champagne da stappare per festeggiare la conclusione di una delle loro avventure. Lupin è seguito dalla polizia di tutta Europa ma è in patria che si trova il suo acerrimo nemico, il commissario Guerchard, iracondo e un po’ goffo, che cerca in tutti i modi di arrestarlo e
finisce sempre per essere ingannato e ridicolizzato. Quando Lupin si spinge fuori dai confini francesi poi, oltre alle autorità internazionali, si trova spesso braccato da Herlock Sholmes e dal suo imbranato “braccio destro” dottor Wilson, che ovviamente sono le due caricature dei più famosi Sherlock Holmes e dottor Watson! Anche loro, però, pur riuscendo ad avvicinarsi a Lupin in diverse occasioni, restano sempre con un pugno di mosche, incapaci di fermarlo e catturarlo. In Italia Arsen diventò Arsenio Lupin e conobbe successo più che per i libri per la serie televisiva ad essi ispirata e andata in onda fra il 1971 ed il 1975, con il bravissimo Georges Descrières. La figura del ladro gentiluomo entrò nel firmamento delle stelle della TV e l’attore ricevette moltissimi premi e riconoscimenti. Ancora oggi viene riproposto ogni tanto sui canali dedicati alle serie “vintage” ed il nome di Lupin è spesso associato a chi si batte contro i malfattori, a sostegno dei più poveri. Anche il “manga”, ovvero il cartone animato giapponese creato nel 1967 da Monkey Punch, “Lupin III” continua ad avere successo da oltre trent’anni. Il personaggio principale è il pronipote del grande Arsen Lupin, degno erede dell’abile avo. Anche attorno a lui gravitano diversi personaggi più o meno legati e ispirati alle avventure del primo Lupin, come ad esempio l’amico Jigen, l’amata Margot ed il nemico numero uno, ossia l’ispettore Zenigata. Dicevo
che Lupin è molto elegante e ha gusti raffinati, beve champagne a qualsiasi ora…ma raramente lo si vede seduto a tavola o intento a mangiare. Io ho visto molti episodi quando ero ragazzina e mi piaceva tantissimo seguire i suoi travestimenti e le sue abili peripezie…nulla era mai come sembrava, anzi, era proprio il contrario! Ed è per questo che ho deciso di abbinare a questo personaggio intramontabile un dolce francese altrettanto intramontabile che è apparentemente al contrario ed è nato da…un errore (!): la tarte tatin! Si narra infatti che mentre Stephanie, una delle due sorelle Tatin, stava preparando in tutta fretta una torta di mele per alcuni clienti (era proprietaria dell'omonimo ristorante di Lamotte-Beuvron) si dimenticò di mettere il guscio di pasta nel fondo dello stampo e che per porvi rimedio le coprì con uno strato di pasta brisée. Il risultato fu talmente apprezzato da diventare ben presto uno dei cavalli di battaglia del locale e una delle icone della pasticceria francese. Non è affatto difficile e vi propongo di cucinarla: farete un figurone!

TARTE TATIN

Ingredienti (per uno stampo da 20/22 cm): 250 g di pasta brisée (se non volete farla potete acquistarla già pronta) - 4-5 mele golden medie - 180 g di zucchero - 50 g di burro - 1 limone - 1 pizzico di sale

Imburrate il fondo dello stampo e cospargetelo con lo zucchero. Sbucciate le mele, tagliatele a spicchi e spruzzatele con il succo di limone per evitare che anneriscano. Disponete le mele nello stampo con la parte concava rivolta verso l’alto. Cuocete le mele nello stampo a fiamma moderata per circa 20 minuti, fino a quando lo zucchero sarà diventato caramellato. Levate lo stampo dal fuoco e lasciate raffreddare. Preriscaldate il forno a 220°. Trasferite la pasta brisée sulle mele, spingete i bordi di pasta verso il fondo dello stampo aiutandovi con un coltellino o un leccapentole. Cuocete la tatin nella parte bassa del forno per circa 20 minuti. Sfornatela, attendete 5 minuti, quindi rovesciatela su di un piatto. Servitela tiepida e, se volete, accompagnatela con un po’ di panna cosparsa di cannella o un po’ di gelato alla vaniglia…si volatilizzerà più velocemente di Lupin!

04/12/2019

CUORE E BATTICUORE: AMORE E DELITTI A LOS ANGELES


«Questo è il mio capo, Jonathan Hart, un miliardario che si è fatto da sé. Un tipo molto in gamba. Questa è la signora Hart, gran bella donna, veramente degna di lui. Ah dimenticavo, io sono Max; mi occupo di loro... e non è una cosa facile, perché il loro hobby è...il delitto!» Cominciava così la sigla del telefilm e le parole venivano pronunciate da Max, maggiordomo, cuoco e autista di casa Hart, a Los Angeles. Sto parlando della serie televisiva statunitense “Cuore e batticuore” (“Hart to Hart”), creata da Sidney Sheldon, andata in onda dal 1979 al 1984 negli USA ed approdata con grande successo in Italia nel 1981. I due protagonisti sono Jonathan Hart (Robert Wagner), ricco ed affascinante uomo d’affari, e la bellissima moglie Jennifer (Stephanie Powers), brillante giornalista freelance con un’unica grande sofferenza: quella di non poter dare figli al suo adorato marito. Innamoratissimi, praticamente perfetti, amanti della bella vita e del pericolo, si trovano spesso coinvolti in casi di contrabbando, furto, spionaggio aziendale e internazionale o, più comunemente, omicidio. Vivono in una fantastica villa a Bel Air e con loro c’è sempre il fedelissimo e preziosissimo Max (interpretato dal grande Lionel Stander) che, oltre a ricoprire varie mansioni quotidiane, viene talvolta coinvolto nelle indagini dei suoi datori di lavoro. I vari casi non si svolgono solo a Los Angeles: il più delle volte i coniugi Hart si trovano immischiati in un crimine commesso in giro per il mondo, durante uno dei loro numerosi viaggi di lavoro o di piacere. E così, fra un party ed un tuffo in piscina, ad un vernissage o durante un galà di beneficenza, le loro capacità investigative li portano ad affrontare spietati assassini o trafficanti senza scrupoli. Ovviamente l’intelligenza, la tenacia, lo spirito di osservazione e il loro affiatamento fanno sempre in modo che tutto si risolva per il meglio e che il bene trionfi sul male, come nei più classici film “made in USA”! E credo sia questo il segreto del successo di questa serie: non ci sono scene violente, niente parolacce e spesso la tensione della trama viene “alleggerita” con delle battute o delle gag. La scena finale di ogni episodio, poi, mostra Jennifer e Jonathan che, tornati nella loro villa, festeggiano la soluzione del caso brindando e baciandosi appassionatamente, sotto gli occhi del piccolo Freeway, il loro onnipresente e vivace cagnolino. Il gusto degli Hart è fuori discussione in ogni campo e anche a tavola: Max prepara loro pranzi e cene ottime e salutari e quando viaggiano sono capaci di destreggiarsi in ogni situazione, assaporando i piatti tipici del paese che li accoglie…ma sono rari i momenti in cui riescono a godersi un pasto in santa pace! Per questo ho deciso di rifarmi ad uno dei loro “semplici spuntini da scena finale”: crostini di pane con caviale! Si tratta di un piatto semplicissimo: prendete del pane e tostatelo leggermente, spalmatevi del burro e adagiatevi due cucchiaini di caviale. Accompagnatelo con una flûte di champagne rigorosamente fresco o con della vodka ghiacciate e gustatelo lentamente, in dolce compagnia…o da soli!!! Qualche cenno storico e curiosità?!? Per esempio lo sapevate che il caviale è ricchissimo di proteine, vitamine (A, E, D, acido pantotenico, riboflavina e B12), sali minerali e acidi grassi omega3, che aiutano a combattere il colesterolo "cattivo"?!? Contiene inoltre molte sostanze nutritive e antiossidanti che fanno bene anche a pelle e capelli. La parola è di origine turca “havyar” e si trova già nei ricettari delle corti rinascimentali italiane. La presenza del caviale nel mondo risale a circa 200 milioni di anni fa, con la comparsa degli storioni sulla Terra. Sì, perché, per chi ancora non lo sapesse, il caviale è un alimento che si ottiene attraverso la lavorazione e la salatura delle uova delle diverse specie di storione, cioè di pesci che appartengono alla famiglia Acipenseridae. Le prime testimonianze si trovano in numerosi reperti e scritti egizi, greci e latini. Fino a poche decine di anni fa, sia il Po che altri grandi fiumi dell’Europa occidentale consentivano una piccola produzione locale di caviale ma la pesca dello storione e la conservazione delle sue uova ha una forte tradizione fra i Cosacchi dell’Ural e del Volga. Il caviale diventò una prelibatezza della corte e dell’aristocrazia di Mosca e di Pietroburgo a partire dal Settecento, quando i Cosacchi iniziarono a donare ogni anno allo Zar il primo caviale raccolto a primavera. Nell'Ottocento furono gli aristocratici russi a diffonderne la moda a Parigi, facendolo conoscere alla borghesia francese che fino ad allora non lo conosceva. Nel 1953 l’Unione Sovietica, erede del monopolio zarista sulla produzione di caviale, donò all’Iran le pescherie che gestiva sulla sponda persiana del Mar Caspio. Da quella data esiste sui mercati mondiali, oltre a quello russo anche il tipo iraniano. Si trovano in commercio anche uova provenienti da altri pesci, ad esempio il salmone o il lompo, ma per legge non possono essere chiamate "caviale". (In Italia il nome da utilizzare è "succedaneo del caviale"). Si tratta comunque di prodotti molto gustosi e con prezzi decisamente più abbordabili del caviale, e ne costituiscono un ottimo sostituto. La zona più produttiva del mondo è quella del Mar Caspio, che comprende Russia, Iran, Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan ed esistono tantissimi tipi di caviale: il più famoso è sicuramente il Beluga, ma ci sono molte altre varietà, ognuna dal sapore e dalle caratteristiche differenti, come l'Ossietra e il Sevruga. Come riconoscere il migliore? In genere, il colore chiaro e le uova grandi e omogenee indicano una superiore qualità del caviale; inoltre, un buon caviale non deve mai puzzare di pesce né avere un sapore troppo salato (altrimenti significa che è illegale, in quanto il sale viene utilizzato per conservarlo quando non vengono rispettati i canoni della “catena del freddo” durante il trasporto!). Il miglior modo di servirlo è direttamente nella latta su una base di ghiaccio ed è opportuno manipolarlo il meno possibile, per non alterarne il sapore. Per la stessa ragione non si dovrebbero usare cucchiaini o coltelli di metallo, ma speciali cucchiaini d’osso, madreperla oppure…d’oro ovviamente! Non so se vi piace e so bene che è anche particolarmente costoso ma credo sia una delle specialità da assaggiare almeno una volta nella vita e ve lo consiglio vivamente! Alla prossima e  до свидания (Do svidaniya…che in russo significa “Arrivederci”).

31/10/2019

IL COMMISSARIO RICCIARDI, INDAGINI E SFOGLIATELLE A NAPOLI


Maurizio De Giovanni, napoletano verace classe 1958, è uno scrittore, sceneggiatore e drammaturgo italiano, conosciuto soprattutto come autore di libri gialli, pur avendo “spaziato” anche in altri generi. Nel 2005 partecipa ad un concorso per giallisti emergenti e per l’occasione crea il commissario Ricciardi, che vive e lavora nella Napoli degli Anni Trenta. Il successo è immediato e a questo primo racconto, seguono altri romanzi con lo stesso protagonista. Ricciardi, però, non è l’unico personaggio creato da De Giovanni. A lui, infatti, si affiancano prima l’ispettore Lojacono e, in seguito, Lojacono e la sua squadra, nota come quella dei “Bastardi di Pizzofalcone”. Dai libri dei “bastardi” è stata tratta la fortunata serie televisiva con Alessandro Gassman, trasmessa dalla Rai a partire dal 2017, mentre proprio in questi giorni si sta girando la prima serie dedicata al commissario Ricciardi, che sarà interpretato dal bravissimo Lino Guanciale. I primi quattro romanzi che vedono protagonista il commissario compongono il cosiddetto “ciclo delle stagioni”: “Il senso del dolore. L’inverno del commissario Ricciardi”, “La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi”, “Il posto di ognuno. L’estate del commissario Ricciardi” ed infine “Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi”. Se volete conoscerlo, iniziate proprio da questi ed in questo ordine. De Giovanni, infatti, ne ha scritti altri undici ma questi ci permettono di conoscere a fondo questo personaggio così singolare nel panorama del genere giallo-noir italiano. Nato nel 1900 in
Cilento, da una famiglia nobile, alla morte dei genitori Luigi Alfredo Ricciardi, barone di Malomonte, si trasferisce a Napoli con Rosa, l’anziana tata che lo ha cresciuto e continua ad amarlo come se fosse suo figlio (…e a pregare che si trovi una donna da sposare!) Nella città partenopea si laurea in legge ed entra nella Regia polizia, pur non avendo necessità di lavorare. Ricco, integerrimo, intelligente; la sua preparazione, la sua capacità deduttiva ed il suo carattere introverso lo mettono in cattiva luce con i colleghi, che non riescono a relazionarsi con un uomo così strano ed ombroso, che considera vittime anche i colpevoli dei delitti sui quali indaga. Al contrario, la sua completa indifferenza verso la carriera e verso qualsiasi tipo di riconoscimento, gli avvalgono il rispetto dei superiori, primo fra tutti il vicequestore Garzo, che si prende volentieri i suoi meriti davanti al regime ed alla stampa e si fa sentire solo quando, durante le sue indagini, il commissario non usa nessun tipo di riguardo nei confronti di nobili e potenti (Non dimentichiamoci che siamo negli Anni Trenta, nel pieno dell’epoca fascista). Gli unici due colleghi con i quali il commissario si rapporta volentieri sono il brigadiere Maione, suo braccio destro, padre di famiglia e poliziotto dal cuore grande, e il razionale e umanissimo dottor Modo, medico legale e ardente antifascista. Oltre alle sue incredibili doti, il commissario ha una caratteristica segreta che lo tormenta ma spesso lo aiuta nella soluzione dei casi, anche dei più difficili. Lui “sente” il dolore, “vede” le vittime di morte violenta e sente le loro ultime parole. Si tratta di un “dono” o di una condanna? Non sempre la differenza è netta. Ricciardi lo chiama “il fatto” e ci convive fin da bambino, quando scopre in un campo il cadavere di un bracciante. Crescendo ha cercato di gestire questo “fatto” e di non parlarne con nessuno, per paura di essere definito pazzo. Ciò lo fa vivere in un'atmosfera di continua tristezza, circondato dalle immagini dei corpi straziati in incidenti, suicidi e omicidi e dalla mestizia delle loro ultime invocazioni d'aiuto. Ha conosciuto Maione proprio quando il figlio del brigadiere, anch'egli poliziotto, fu ucciso e Ricciardi gli riferì le sue ultime parole. E il brigadiere non lo ha giudicato e, anzi, da allora non lo ha più abbandonato. Lo accompagna, infatti, in ogni sua indagine, ammirando il suo profondo senso della giustizia e la sua capacità di calarsi nei panni di vittima e carnefice, tornando e ritornando sugli stessi dettagli, lavorando senza sosta per non correre il rischio di incolpare un innocente. Per il commissario il movente di qualsiasi delitto si riconduce a due soli motivi: la fame o l’amore. E le sue indagini confermano quasi sempre questa sua convinzione. A causa del “fatto” la sua vita affettiva è vuota. Le uniche donne presenti nella sua esistenza sono Rosa,
che è per lui come una madre, Enrica, una timida ragazza che lui ama platonicamente, guardandola dalla finestra della sua stanza, ignaro del fatto che anche lei lo osserva ogni giorno, e Livia, vedova di un famoso tenore, che lo corteggia apertamente. A parte queste “distrazioni”, il nostro buon Ricciardi non fa altro che lavorare. A pranzo mangia una pizza al volo o si concede una sfogliatella al Caffè Gambrinus, in piazza Plebiscito, mentre alla cena (per fortuna!) ci pensa Rosa. Avendo molto apprezzato i libri che lo vedono protagonista, non vedo l’ora di guardare anche la serie televisiva: sono proprio curiosa di vedere come riusciranno a portare sul piccolo schermo questo originalissimo personaggio! Vi consiglio, nel frattempo, di leggere i suoi romanzi, almeno il ciclo delle stagioni e vi segnalo, nell’edizione Einaudi del primo libro, quello sull’inverno, il racconto dell’incontro fra il commissario Ricciardi e Maurizio De Giovanni, il suo creatore: davvero notevole! Per quanto riguarda il gusto, beh! Ho scelto una missione suicida: ho deciso di misurarmi con le sfogliatelle! E visto che sono proprio fuori di testa, ho provato a fare sia le sfogliatelle ricce che le frolle! Le prime sono state un completo disastro perché ho miseramente fallito con la sfoglia (ma ci riproverò, non dubitate!), mentre le altre sono venute proprio bene! Provateci anche voi e poi fatemi sapere se ci siete riusciti!!!

SFOGLIATELLE NAPOLETANE NELLE DUE VARIANTI (ricetta originale partenopea)
Ingredienti per il ripieno (uguale per entrambe): 250 gr ricotta – 150 gr semolino – 500 ml acqua - 100 gr canditi misti – 150 gr zucchero a velo – un uovo – essenza di vaniglia – cannella
Per la preparazione del ripieno occorre far bollire in una casseruola mezzo litro di acqua, versarvi il semolino a pioggia e mescolare, evitando che si formino grumi. Dopo averlo fatto raffreddare, versarlo in una terrina, unire la ricotta, l’uovo, lo zucchero a velo, i canditi, un pizzico di cannella e qualche goccia di essenza di vaniglia. Far riposare il composto in frigorifero per almeno un paio d’ore.
Ingredienti per l’impasto della sfogliatella frolla: 500 gr farina – 200 gr strutto – 200 gr zucchero –  3
uova      Preparare la pasta frolla e farla riposare in frigorifero per almeno un’ora. Riprenderla, stenderla e, con l’aiuto di un coppapasta (o di una tazzina), ricavare dei dischi uguali. Posizionare il ripieno al centro di metà dei dischi e coprirli con la restante metà. Mettere i dolci in forno a 180° per 20 minuti circa. Sfornare, lasciare raffreddare e servire con una spolverata di zucchero a velo.
Ingredienti per l’impasto della sfogliatella riccia: 400 gr farina – 150 gr burro – 50 gr zucchero – un pizzico di sale – acqua q.b.
Lavorare gli ingredienti, aggiungendo acqua sufficiente a rendere l’impasto sodo ed elastico. Dividerlo in 4 sfoglie, sovrapporle e arrotolarle. Tagliare delle fette larghe circa 1 cm e piegarle una ad una, spingendo con le dita e ricavando una specie di “cappuccio”
triangolare, nel quale andrà inserito il ripieno precedentemente preparato. Adagiare le sfoglie sulla teglia e infornare a 200° per 20 minuti, poi a 180° per altri 20 minuti ed infine a 160° per dieci minuti. Le sfogliatelle dovranno essere ben dorate ma non bruciate. Lasciarle raffreddare e servirle con una spolverata di zucchero a velo. Attenzione: una volta sfornate, attratti dal profumo inebriante, vi verrà voglia di addentarne subito una...non fatelo!!!! Esternamente potrebbero anche essere solo un po’ calde ma il ripieno è ustionante!!! Sono l’ideale per un caffè o un tè in compagnia o per una merenda, sul divano, con una tisana calda e un bel libro…in entrambi i casi finiranno in un istante. Buona degustazione, buona lettura e alla prossima!

23/10/2019

NAPOLI, AGLIO, OLIO E...ASSASSINO!

Pino Imperatore, umorista e giornalista, è nato nel 1961 a Milano, da genitori napoletani emigrati per lavoro e poi tornati nel loro paese di origine, Mugnano di Napoli. Attualmente vive ad Aversa e lavora a Napoli. Fin da ragazzo Imperatore dimostra un vivo interesse per la letteratura, il giornalismo e l’impegno civile, vivendo un forte senso di appartenenza alla sua amata Campania, così affascinante ed al tempo stesso così martoriata. Dopo la laurea in Scienze Politiche, inizia subito a collaborare con le principali testate giornalistiche, lavorando anche con Amato Lamberti e Giancarlo Siani. L’uccisione di quest’ultimo per mano della camorra segnerà profondamente il giovane Pino e lo porterà ad impegnarsi nel sociale per combattere con tutti i mezzi questo “cancro” che divora la sua terra. Le sue armi principali sono da allora i suoi articoli, i suoi libri, le sue sceneggiature e il suo immenso umorismo. Pino Imperatore scrive della camorra utilizzando personaggi tragicomici che fanno ridere ma fanno riflettere e lasciano l’amaro in bocca. Scrive moltissimo e diverse delle sue opere diventano best sellers e vengono utilizzate nelle scuole per affrontare il tema della lotta alla camorra. Il successo come scrittore, in tal senso, arriva con il romanzo “Benvenuti in casa Esposito – Le avventure tragicomiche di una famiglia camorrista”, in cui racconta le avventure del figlio goffo e incapace di un boss, che cerca di emulare il padre  Le indagini porteranno Scapece a scavare nel passato delle superstizioni e delle leggende napoletane, arrivando anche a rischiare in prima persona per assicurare il colpevole alla giustizia. Nonostante i delitti che vengono commessi e narrati, il libro di Pino Imperatore è davvero “scoppiettante” e pieno di momenti, di “scenette” esilaranti che alleggeriscono non poco il racconto, stemperando il crescendo di tensione che coinvolge il lettore. Ve lo consiglio di cuore, soprattutto se volete una lettura rilassante. Essendo ambientato, per buona parte, nel locale dei Vitiello, nel romanzo si trovano moltissime descrizioni di piatti tipici e stuzzicanti, citazioni, racconti e richiami di argomento culinario…ma non ho potuto fare altro che scegliere la ricetta che viene richiamata nel titolo e che è la protagonista per eccellenza: gli spaghetti aglio, olio e peperoncino.
finendo sempre per combinare guai. Il suo primo libro come giallista, invece, è “Aglio, olio e assassino”, un poliziesco avvincente, ricco di suspense e, al tempo stesso, spassosissimo! Le parole di Imperatore scorrono che è un piacere e riescono a coinvolgerti, catapultandoti letteralmente in quella che lui definisce la città più imprevedibile del mondo: Napoli. Nel pittoresco quartiere di Mergellina si trova da più di trent’anni la premiata trattoria “Partenope”, gestita da Francesco Vitiello, meglio conosciuto come Nonno Ciccio, e da suo figlio Peppe, detto Braciola. E di fronte al locale, che dispensa quotidianamente deliziosi piatti della cucina tipica napoletana, è stato da poco aperto un commissariato di Polizia. L’ispettore Gianni Scapece, ottimo segugio, appassionato di gialli (e di belle donne!), amante della buona tavola, è da poco tornato nella sua città natale, proprio nella casa dei genitori, nello stesso quartiere in cui è cresciuto e nel quale, ora, si trovano il suo posto di lavoro e il fantastico ristorante della famiglia Vitiello. E fra un omicidio, un pranzo e una discussione con il suo capo (il tenace commissario Carlo Improta, che gli si è affezionato come ad un figlio), Scapece cerca di risolvere un caso davvero difficile. Un serial killer, infatti, terrorizza Napoli proprio nei giorni precedenti il Natale e “condisce” le sue vittime con ingredienti della cucina partenopea. I Vitiello, oltre a dispensare degli ottimi piatti, cercano di aiutare il nuovo amico ispettore, sostenendolo ed unendo gli sforzi di tutta la loro originalissima famiglia. Già perché chi frequenta la trattoria frequenta di riflesso anche tutti i Vitiello che, oltre ai due sopra citati, comprende Angelina, moglie di
Peppe, i loro due figli, Isabella e Diego, le due “aggiunte” sorelle Giaquinto, cuoche eccellenti e lavoratrici indefesse, ed il simpatico Zorro, cane “custode” e fedele di Nonno Ciccio.
Questo piatto tipico della cucina napoletana (“spaghetti aglio e uoglie”) fa parte della schiera di ricette “povere” e cosiddette della “cucina piccina” partenopea. Nonostante sembri estremamente semplice…non lo è per niente! È necessario, anzitutto, utilizzare delle materie prime eccellenti e poi è fondamentale rispettare i tempi e fare attenzione al dosaggio, per esaltare tutti i sapori e non coprirne neanche uno. E allora…ecco a voi questa eccellenza!

SPAGHETTI AGLIO, OLIO E PEPERONCINO 

Ingredienti per 4 persone: 320 g di spaghetti - 2 spicchi d'aglio - peperoncino (1 grande o 2 piccoli) – olio evo – sale – prezzemolo fresco
Cominciate la preparazione degli spaghetti aglio, olio e peperoncino mettendo a bollire abbondante
acqua salata in una pentola capiente. Tagliate a metà i due spicchi d'aglio, privateli dell'anima al loro interno e tritateli molto finemente. Poi prendete il peperoncino e tagliatelo a rondelle fini.
Scaldate in una padella 5/6 cucchiai di olio, unite l'aglio tritato e fatelo soffriggere per qualche minuto facendo molta attenzione affinché non bruci. Unite il peperoncino e fatelo soffriggere per qualche secondo. Fate cuocere gli spaghetti in abbondante acqua salata e scolateli al dente. Trasferiteli nella padella con l'aglio e il peperoncino e fateli saltare a fuoco vivo per distribuire bene il condimento e lasciarli insaporire. Servite subito gli spaghetti aglio, olio e peperoncino ben caldi e gustateli in buona compagnia! Buon appetito e alla prossima!

09/10/2019

HANNA LINDBERG, STOCCOLMA E...IL GUSTO DI UCCIDERE


Hanna Lindbergh è nata nel 1981 e vive a Stoccolma. È una giornalista di costume che lavora soprattutto sul web e ha esordito come scrittrice nel 2017 con il romanzo “Stockholm Confidential”, subito arrivato in cima alle classifiche svedesi e pubblicato in oltre 10 paesi.  Con il suo secondo libro “Il gusto di uccidere”, la Lindberg si riconferma come la più giovane autrice svedese di gialli capace di riscuotere grande successo anche al di fuori dei confini del proprio Paese.  La protagonista dei suoi libri è Solveig Berg, una brava e giovane giornalista, coraggiosa e spregiudicata, pronta a superare qualsiasi limite per conoscere i fatti e la verità. La sua determinazione l’ha portata a lavorare accanto a una celebrità: Vanja Stridh, critica gastronomica e nome affermato delle scene giornalistiche di Stoccolma e di tutta la Svezia. Mentre nella sua prima indagine Solveig è alle prese con il mondo apparentemente dorato ma in realtà profondamente marcio della moda, nel secondo libro (quello che mi ha subito attratto, ovviamente!) si ritrova in quello dell’alta cucina. Il “Cuoco d’Oro”, che premia lo chef più talentuoso di Stoccolma, è l’evento più importante dell’anno, quello che riunisce cuochi stellati, critici ed esperti culinari, giornalisti, blogger e gourmet nell’enorme sala dello Stockholm Grotesque, il consacrato tempio della ristorazione svedese. Solveig è riuscita ad entrare, grazie soprattutto al suo capo, Vanja Stridh appunto, ed attende con trepidazione l’annuncio del vincitore. I due chef stellati che si contendono il premio sono Florian
Leblanc e Jon Ragnarsson, un tempio soci ed ora rivali ed acerrimi nemici. Vincere questo premio sarebbe davvero molto importante per entrambi. Ma ad un tratto le luci nella sala si spengono e si sente un colpo di pistola. Mentre il panico mette in fuga la folla, la luce ritorna e mostra qualcosa di terribile: il corpo senza vita sul palco è quello di Vanja. Da quel momento l’unico obiettivo di Solveig è quello di scoprire la verità, a tutti i costi e con tutti i mezzi. Il proiettile era davvero destinato a Vanja o a qualcun altro? Ed in tal caso a chi? La giornalista si troverà sola contro tutti, compresa la Polizia e il suo compagno, e arriverà a rischiare la vita più di una volta per scoprire il colpevole dell’omicidio e, allo stesso tempo, realizzare l’inchiesta più importante della sua carriera. Nella sua indagine incontrerà persone che hanno potere e possono disporre della vita altrui, persone che non sono ciò che sembrano, persone che cercano una seconda possibilità e altre che hanno perso la loro umanità. Solveig porterà a galla un passato molto pesante e svelerà segreti che affondano le proprie radici nelle pagine più cupe della storia. Parallelamente a lei si muove Lennie Lee, ex fotografo di moda caduto in disgrazia, una vita ed una carriera travolte dagli scandali e dalla galera, che finisce a lavorare nella cucina della famosissima Linda Berner, cercando di riprendere in mano la propria vita e di “fare le cose giuste”. È su questi due personaggi soprattutto, Solveig e Lennie, che si concentra la capacità di Hanna Lindberg di dare valore e luce agli aspetti più intimi e contraddittori delle menti e delle azioni. “Il gusto di uccidere” è un thriller spietato e insieme insolitamente umano e, nella sua struttura, rivela la formazione giornalistica di Hanna Lindberg, capace di indagare nei fatti, senza trascurare nessun elemento, consapevole che la verità, come il buon cibo, deve essere sempre autentica e rispettata. Una curiosità: l’autrice, per poter rendere in maniera credibile ed efficace cosa succede dietro le quinte, si è fatta assumere e ha lavorato in un vero ristorante. E racconta in modo eccezionale un’immagine inedita della società svedese che ha anche un lato oscuro, ben lontano dagli stereotipi della Svezia a cui ci si riferisce abitualmente, con foreste immense e laghi cristallini. Per rendere omaggio a questa brava scrittrice ed alla sua protagonista, ho scelto di proporvi qualcosa di semplice e schietto, come il pane. In Svezia, infatti, ogni momento è buono per fare una pausa e le mete preferite degli svedesi sono proprio le panetterie, dove è possibile bere una bevanda calda e gustare un dolce o uno dei tanti, tantissimi tipi di pane. Panini al sesamo, ai semi di papavero, alle spezie, ai cereali, bianchi, neri, profumati, morbidi…ce n’è per tutti i gusti e sono tutti buonissimi, sia da soli che farciti. Io ho preparato quelli ai semi di zucca, li ho farciti con il sempre gustosissimo salmone e ve li consiglio spassionatamente, così come vi consiglio i libri della Lindberg…soprattutto “Il gusto di uccidere”!

PANINI AI SEMI DI ZUCCA

Ingredienti: 200 gr di farina 00 - 200 gr di farina 0 - 180 ml di acqua - 12 gr di lievito di birra - 1 cucchiaino di zucchero - 4 cucchiai di olio extravergine d'oliva - 2 cucchiaini di sale - 2 cucchiai di semi di zucca – latte - semi di zucca

Mettete le farine disposte a fontana e versate man mano al centro l'acqua, leggermente tiepida, nella quale avete precedentemente sciolto il lievito. Iniziate a lavorare l'impasto e, quando la farina avrà assorbito tutta l'acqua, aggiungete il sale, lo zucchero, l'olio e i semi di zucca. Lavorate l'impasto fino ad ottenere un panetto liscio e omogeneo che metterete a lievitare per 2 ore. Riprendete l'impasto e formate con esso 8 panini che andrete a disporre su una placca da forno rivestita di carta forno. Spennellate con un po' di latte, spolverizzare con i semi di zucca e lasciate riposare ancora per 30 minuti. Preriscaldate il forno a 220 gradi e quando sarà caldo infornate i panini e fate cuocere per 15 minuti. Sfornate, lasciate intiepidire e servite. Io ho preparato una crema di burro con dell'erba cipollina fresca tritata a mano, l’ho spalmata sui panini e li ho completati con del salmone, un pizzico di pepe e qualche goccia di limone…una delizia! Buon appetito e alla prossima!

02/10/2019

RICETTE, AMORI E…DELITTI DI UNA SINGLE A GENOVA


“Rebecca Coen (è uno pseudonimo) è una donna (o forse più di una) che si divide tra famiglia, lavoro, sociale, politica e ghostwriting. Ha già scritto gran parte del suo secondo thriller culinario e immaginato parte del terzo”. Questo è ciò che è scritto sulla quarta di copertina del libro “Morte alla cannella” di Rebecca Coen, appunto. Non sono riuscita a trovare altre notizie e credo proprio che per ora dovremo accontentarci di queste poche righe, sperando di scoprire di più con l’uscita dei prossimi libri. Del libro, invece, posso dirvi decisamente di più e anche consigliarvelo. Bisogna dire, anzitutto, che non si tratta di un classico ma di un romanzo giallo che si potrebbe definire “tragicomico”.  Leggero, accattivante, capace di coinvolgere il lettore non solo nell’indagine vera e propria ma anche, e soprattutto, nella vita della protagonista, originale e fuori da ogni schema. Emma Mezzalira, infatti, è una trentenne genovese, single, disoccupata, curiosa, “casinara”, un po’ goffa e grande appassionata di cucina. Perennemente alla ricerca di un lavoro e di un fidanzato, cerca di sbarcare il lunario accettando qualsiasi occupazione precaria, purché dignitosa si intende, e divide un appartamento con due ragazzi, un timido e introverso genio informatico e un prorompente e solare personal trainer. Tanto disordinata e imbranata in qualsiasi ambito, Emma si trasforma quando si mette ai fornelli e prepara manicaretti per coinquilini ed amici. La cucina è la sua valvola di sfogo, il posto in cui si lascia andare, in cui è solo sé stessa; mentre taglia, impasta, inforna…si rilassa, mette ordine nei suoi pensieri e si tira su di morale. Per far colpo su un corriere che le consegna la merce acquistata on line, decide di preparare dei dolci alla cannella ma si accorge di averla finita e si precipita nel minimarket più vicino per comperarla. Si ritrova davanti allo scaffale, sul quale è rimasta una sola confezione della preziosa e profumata spezia, accanto ad una distinta ed agguerrita signora che gliela prende letteralmente dalle mani dopo una piccola schermaglia. Emma maledice in cuor suo la nemica e va in un altro negozio ad acquistare la cannella. Poche ore dopo, però, scopre che la signora è morta in circostanze misteriose e pensa che le sue maledizioni abbiano avuto effetto.
La sua immensa curiosità, unita al senso di colpa, la spingono ad indagare sull’omicidio e a commettere un errore dietro l’altro, arrivando anche ad intralciare il lavoro delle forze dell’ordine. In tutto questo la storia con il bel corriere non decolla ma, in compenso, Emma conosce un carabiniere dagli occhi azzurri che le farà girare la testa; le sue due nonne, Crocefissa e Ortensia, si alternano alla sua porta con i loro rimproveri e i loro consigli (diametralmente opposti come sono loro!); la sua amica Cleo, che fino a qualche anno prima era il brasiliano Thiago, scompare…Insomma la sua vita è tutta un susseguirsi di scelte sbagliate e momenti di sconforto, per uscire dal quale Emma si rifugia in cucina, con grande gioia dei suoi coinquilini. Pensate che nel libro sono proprio inserite le ricette che la protagonista cucina nei diversi momenti dell’indagine, spaziando dal dolce al salato, dal classico all’etnico, dalla cucina di nonna Crocefissa, rigorosamente casalinga, a quella di nonna Ortensia, in versione light per mantenere la linea. Insomma ce n’è per tutti e non si può proprio dire che ad Emma manca il senso del gusto, anzi! Ha proprio buon gusto e anche abbastanza fiuto per il delitto! Avrei potuto scegliere una delle ricette proposte da Emma ma per rendere omaggio alla spezia che fa partire le indagini e dà il titolo al libro, ho deciso di preparare dei soffici e profumatissimi muffin alle mele e cannella. Sono facilissimi da fare e…ancora più facili da mangiare!!!



MUFFIN ALLE MELE E CANNELLA

Ingredienti per 12 muffin: cannella - 2 mele – 2 uova – 100 gr burro – 120 gr zucchero – 160 ml latte – 260 gr farina 00 – una bacca di vaniglia – 3 cucchiaini di lievito per dolci – un limone – sale – zucchero a velo
Fate fondere il burro e lasciatelo raffreddare. Intanto sbattete dolcemente le uova con lo zucchero e la vaniglia: dovrete ottenere un composto leggero e spumoso. Aggiungete il latte, il burro fuso, un pizzico di sale e la scorza grattugiata del limone. Mescolate a parte il lievito con la farina e la cannella e aggiungete lentamente al composto. Per ultima aggiungete una mela tagliata a dadini. Riempite con il composto lo stampo dei muffin leggermente imburrato (se non l’avete utilizzate dei pirottini di carta), tagliate l’altra mela a fettine sottili e mettetene due o tre su ogni muffin. Infornate in forno statico, a metà altezza, a 180° per 30/35 minuti. Sfornate, fate raffreddare e togliete i muffin dallo stampo. Prima di servirli cospargeteli con un pochino di zucchero a velo. Consiglio di gustarli con un tè o con una tisana, in compagnia di persone simpatiche o di un buon libro…giallo ovviamente! Alla prossima!

27/09/2019

PETRA DELICADO, ISPETTRICE DELLA POLIZIA DI BARCELLONA


Alicia Giménez-Bartlett (classe 1951) è stata soprannominata l’Andrea Camilleri della Spagna e questo probabilmente potrebbe già bastare per annoverarla fra i più grandi scrittori di romanzi gialli contemporanei…ma ormai mi conoscete e sapete che devo “toccare con mano” per essere sicura e quindi ho iniziato a leggere un paio dei suoi libri. Beh! Magari non arriva al grande Camilleri (almeno non per me!) ma devo ammettere che è brava. Da sempre impegnata nel sociale, contro i soprusi di ogni genere e contro la discriminazione delle donne nella società e sul lavoro, la Giménez-Bartlett ha scritto molti libri e saggi in proposito ed è sempre stata in prima linea in diverse battaglie portate avanti dalle femministe spagnole, in particolare nei difficili anni Settanta. Negli anni Novanta fa un “incontro” che le cambierà la vita: legge “Quel che rimane”, uno dei fantastici romanzi di Patricia Cornwell, con protagonista Kay Scarpetta, e decide di creare anche lei un “suo” personaggio…donna, ovviamente! Così nasce Petra Delicado, ispettrice della Polizia di Barcellona, protagonista di dieci libri, che la fa
conoscere anche al di fuori della penisola iberica, in Europa e Oltreoceano, e le permette di vincere diversi premi letterari del genere. Il successo continua anche sul piccolo schermo, grazie alla serie tv (al momento non ancora arrivata in Italia) alla quale lavora la stessa Giménez-Bartlett, pur continuando a dedicarsi alla scrittura di altro genere. Al momento non si conoscono le intenzioni della scrittrice circa eventuali nuovi romanzi con protagonista la sua eroina ma…chi può dirlo?!? Non sono pochi gli autori che fanno sparire e poi tornare i loro personaggi. Nel frattempo io vado avanti a leggere, anche perché i libri di Alicia mi piacciono. Ma chi è Petra Delicado? Già il nome è tutto un programma, è un ossimoro che presenta subito la persona che lo porta. Petra è una donna affascinante, dura, idealista e molto sensibile, sempre molto attenta a nascondere la propria fragilità dietro una maschera di risolutezza e di sarcasmo. Decisa e molto competente, sul lavoro è spesso brusca e non guarda in faccia a nessuno, arrivando a risultare antipatica anche ad alcuni colleghi. Femminista, progressista, insofferente rispetto alle regole ed ai riti, non sopporta i compromessi e quando inizia un’indagine non si ferma finché non ha trovato il colpevole. Anche nella vita privata è abbastanza “irregolare”: due divorzi, relazioni complicate, rapporti difficili…Petra è un vulcano e fatica a reggere la monotonia. Le fa da “contraltare” il suo partner sul lavoro, il viceispettore Fermin Garzòn, vedovo e un po’ più vecchio di lei, diametralmente opposto al suo capo ma, proprio per questo, perfettamente complementare. Bonario, pratico, esperto, semplice, amante del buon cibo e del buon vino, chiacchierone e oratore particolarmente brillante, Fermin è, però, capace di diventare molto duro sul lavoro e non sopporta chi mente. I due si
intendono molto bene, grazie alla professionalità, alla stima reciproca ed alla grande ironia che li accomuna. Barcellona, la città in cui vivono e lavorano, è un’altra protagonista della serie ma rimane sempre sullo sfondo, presente ma non definita. L’ambientazione è quasi sempre nei sobborghi o in periferia perché, come ammesso dalla stessa Giménez-Bartlett, lo scopo è quello di non distrarre il lettore, di non tediarlo con inutili e minuziose descrizioni di luoghi e zone che può riconoscere ma tenerlo accanto agli investigatori, fissare il suo sguardo e la sua attenzione sul come, sul chi, sul perché piuttosto che sul dove. L’autrice preferisce scendere nei particolari riguardanti gli interrogatori o soffermarsi sulle discussioni fra Petra e Fermin, che cercano di sbrogliare la matassa, piuttosto che spiegarci dove si è svolto il crimine. E vi consiglio vivamente di leggere i suoi libri, perché sono davvero coinvolgenti e capaci di regalare momenti di svago, soprattutto grazie alla leggerezza delle tante battute e delle scaramucce fra i due colleghi protagonisti, che spesso litigano come una vecchia coppia di sposi e si punzecchiano a vicenda, un po’ anche per stemperare la tensione dell’indagine in cui sono coinvolti. I momenti che preferisco, però, nei libri della serie dell’ispettrice Delicado sono quelli in cui lei e Garzòn si ritrovano a mangiare insieme! Sono, infatti, entrambi amanti della buona cucina, soprattutto del pesce e del buon vino; in particolare Fermin non riesce a ragionare se non mangia come si deve sia a pranzo che a cena. E così li troviamo spesso fuori, in una delle tipiche trattorie spagnole, a mangiare qualche specialità locale o a casa, ora di uno ora dell’altra, a consumare un pasto o uno spuntino improvvisato fra un interrogatorio e l’altro. E così fra una paella, una tapa, una morcilla e un bicchiere di buon vino, gli indizi cominciano a seguire una logica e a portare verso la soluzione del caso. Avrei potuto lanciarmi in una delle tante preparazioni citate nei libri ma ho notato che sulla tavola di entrambi i nostri poliziotti-buongustai spagnoli l’elemento principale è sempre uno: la semplicità! E così ho deciso di proporvi una semplice e coloratissima insalata tiepida di mare con verdure, che metterà d’accordo spagnoli e italiani ma soprattutto chi, come me, ama il gusto!

INSALATA TIEPIDA DI MARE CON VERDURE

Ingredienti per 6/8 persone: 800 gr di polpo - 600 gr di calamari - 1 kg di vongole - 1 kg di cozze - 300 gr di gamberi - 2 spicchi di aglio – un peperone rosso - olio evo - 1 limone – prezzemolo – sale – pepe – vino bianco  

Iniziate con il preparare una marinata mettendo in una ciotolina il prezzemolo tritato, l'aglio tagliato a pezzetti, sale, pepe, succo di limone e olio. Pulite i calamari togliendo le interiora e il gladio, e sciacquate sotto l'acqua corrente. Staccate e spellate le sacche ed eliminate la parte con gli occhi. Cuocete i calamari in acqua bollente per 15 minuti circa. Pulite il polpo, svuotando le sacche e spellandolo. Cuocete il polpo in acqua bollente per 40 minuti circa. Tagliate a pezzetti i tentacoli dei
polpi e le sacche dei calamari. Spazzolate bene le cozze e togliete le "barbe" e fate spurgare le vongole lasciandole per un'ora in acqua salata. Cuocete le vongole e le cozze in 2 padelle separate con un po’ di vino bianco. Coprite e fate cuocere a fiamma alta per qualche minuto, in modo da far aprire le valve. Appena le cozze e le vongole saranno pronte, filtrate l'acqua dei frutti di mare e tenetela da parte. Nel frattempo portate a bollore un po’ di acqua con un cucchiaio di aceto, lavate, pulite e tagliate a piccole falde il peperone e buttatele nell’acqua. Dopo 10/12 minuti scolate il peperone e fatelo saltare per 5/10 minuti con un pochino di sale e un filo di olio in una padella antiaderente: deve rimanere un po’ al dente e non deve bruciare. Iniziate ora ad assemblare la vostra insalata di mare. In un'ampia zuppiera disponete i calamari tagliati a rondelle, il peperone, le vongole e le cozze. Infine aggiungete il polpo tagliato a tocchetti e la marinata. Mescolate l'insalata di mare aggiungendo l’acqua filtrata dei frutti di mare (mi raccomando: tiepida non calda!), aggiustate di sale e pepe se necessario, e servite con pane casereccio e del vino bianco frizzante e freschissimo. Questo piatto non si gusta solo con il palato ma anche con gli occhi e il naso: i colori e il profumo, infatti, ve lo faranno assaporare ancora di più! E allora buon appetito, anzi “Que aproveche!”

18/09/2019

IL COMMISSARIO CUCCI: UN RUNNER NELLA QUESTURA DI MILANO


Luciano Cosimo Carluccio è nato a Zurigo nel 1966, si è laureato in Chimica a Firenze, vive e lavora in provincia di Milano, come ricercatore in una società petrolifera…e questo al momento è tutto ciò che si sa di questo scrittore. Beh! Del resto non serve sapere altro per apprezzare la sua bravura, il suo stile narrativo schietto e coinvolgente, la sua capacità di farti “vivere” i suoi libri e di catapultarti in una Milano vera, autentica, viva e pulsante. Già perché è proprio questo che mi ha colpito delle sue tre opere: una volta che ho iniziato a leggere le prime pagine ho dovuto arrivare alla fine e una volta letto il primo libro ho dovuto leggere anche gli altri. Sarà che sono di Milano e che ho vissuto proprio vicino ad alcune delle zone che fanno da sfondo alle sue storie, sarà che il protagonista mi è simpatico e sarà pure che mi sono “imbattuta” in Carluccio per caso, tramite una collega…fatto sta che i suoi libri mi hanno proprio “preso”! In tutti e tre i suoi scritti, Carluccio affronta temi forti, molto attuali e spesso il confine fra il bene e il male non è così netto e viene superato anche da chi dovrebbe, invece, tenerlo più marcato. “Perline colorate” (2013), “Rifiuti particolari” (2016) e “Perfidi inganni” (2018) sono i titoli dei tre gialli, tutti con un unico protagonista: il commissario Cosimo Cucci, detto Mino. Originario della Puglia, single (almeno nella prima avventura…), Cucci è schivo, metodico, pignolo, rigoroso, attento al minimo dettaglio sul lavoro e nella vita. È ancora scosso dal fallimento di un’importante operazione, durante la quale sei dei suoi uomini hanno perso la vita ed in seguito alla quale è stato trasferito dall’Antidroga alla Omicidi. Runner appassionato, ogni
mattina, puntuale come un orologio svizzero, si alza all’alba per correre nel Parco di Trenno poi torna a casa, si prepara e va in Questura. Durante la corsa pensa al caso che sta seguendo, cercando di fare ordine fra le varie prove acquisite, le testimonianze ascoltate e i tanti piccoli dettagli che sembrano fuori posto. E, a poco a poco, ogni tessera del puzzle trova la sua collocazione e la verità emerge, portando con sé un gusto amaro, a volte acido. Le indagini di Cucci, però, ci fanno conoscere e apprezzare anche la sua grande umanità, la sua capacità di empatia, il suo disgusto per gli arrampicatori sociali, il suo rispetto per l’onestà e per la diversità, il suo desiderio di giustizia unito al profondo senso del dovere. Accanto a lui troviamo i suoi uomini più fidati: l’assistente capo Carmine Esposito e il viceispettore Libero Centamore, sempre pronti a seguirlo e ad assecondare le sue richieste, anche quelle apparentemente stravaganti. E, al di fuori della Questura, i suoi amici e corregionali Santino e Luce, rispettivamente gestore e cuoca del ristorante “Il saraceno”, che hanno a cuore il giovane commissario e, in particolare, il suo stomaco! Luce, con grande senso materno, lo trova sempre sciupato e gli prepara dei piatti tipici della cucina pugliese, che lui apprezza e gusta con sano appetito, accompagnati da un buon vino! Che soddisfazione! Meno male che ogni tanto si trovano ancora dei protagonisti che sanno godere della buona tavola! Sinceramente mi sono trovata un po’ in imbarazzo a scegliere uno dei piatti di cui si parla nei libri di Carluccio e, siccome sono anch’io un po’ pignola, mi sto preparando per cercare di riprodurne uno in modo degno di Luce…magari in occasione del prossimo libro!!! Nel frattempo, visto che anche il clima mi impedisce di “lasciarmi andare” in cucina come vorrei (!), ho deciso di
proporvi una ricetta preparata proprio dal commissario Cucci in persona: le friselle (o frise) con i  pomodori. Mi sono documentata e ho scoperto che c’è molta storia dietro questo piatto semplice e gustoso che è tanto amato e non solo in Puglia! Le sue origini risalgono ai tempi dei Crociati, che le inserivano nel loro vettovagliamento in vista delle lunghe spedizioni. Le friselle, infatti, si prestano ad una lunga conservazione e, per questo, sono sempre state utilizzate dai contadini e, soprattutto, dai pescatori che si limitavano a bagnarle con l’acqua del mare per poi farcirle con pomodorini e altre verdure o ad utilizzarle per accompagnare le zuppe di pesce. Si tratta, in pratica, di grandi taralli di grano duro o di orzo, cotti nel forno, tagliati a metà in senso orizzontale e messi di nuovo in forno. Per questo hanno una parte liscia e una ruvida. Sono tante le possibili farciture di questa specie di “pane biscottato” ma direi che la più classica è quella che vede le friselle servite con pomodorini, sale e olio. Io vi propongo la mia versione, vicina ma non identica a quella del buon commissario Cucci.

FRISELLE, POMODORI E CIPOLLOTTI
Ingredienti: friselle (due o più a persona…dipende dalla grandezza delle friselle e…da chi avete a
tavola!!!) – pomodori – cipollotti freschi – sale – pepe – olio evo – olive (a piacere)
Anzitutto preparate un piatto con un po’ di acqua leggermente salata (Io ho aggiunto anche un po’ di acqua dei pomodori), perché bisogna “sponzare” le friselle, bisogna cioè bagnarle, immergendole nell’acqua. Questo passaggio è molto importante: infatti in base a come si preferiscono, più croccanti o più morbide, si devono lasciare immerse per circa 30 sec o 1 minuto. Dopo averle ammorbidite si può iniziare a condirle. Ho preparato i pomodori, tagliandoli a piccoli pezzettini, e li ho uniti ai cipollotti, li ho conditi con olio evo, sale, pepe e origano e li ho posati sulle friselle. (Volendo si possono unire delle olive, del formaggio o altro, a vostro piacimento). Infine ho versato un filo di olio e le ho servite con una burratina e un bel bicchiere di vino bianco ghiacciato! Che buone! Vi assicuro che le rifarò presto, magari cercando anche di fare proprio le friselle, anziché comprarle già pronte. Per ora è andata benissimo così. E allora buon appetito e alla prossima!

29/06/2019

CALDO KILLER E ALTRI PICCOLI, GRANDI CRIMINI


Buonasera! Chi mi segue fedelmente si sarà accorto (spero!!) che questa settimana non ho ancora pubblicato nulla. Le motivazioni sono diverse ma la principale è costituita dal mio acerrimo nemico: il caldo killer! Pur essendo nata in piena estate, infatti, sono una appassionata amante del freddo e all’arrivo del caldo i miei neuroni vanno completamente in tilt! Faccio fatica anche solo a formulare un pensiero, figurarsi scriverlo! In casa la mia cucina entra in “regime minimo di sopravvivenza” e il forno viene lasciato in uno stato di totale abbandono fino all’abbassamento della temperatura esterna, utilizzato solo in casi di estrema emergenza e/o durante forti temporali estivi, rinfrescanti e rigeneranti. A pieno regime, invece, lavorano il frigorifero, il freezer, il mitico pinguino e, ovviamente, la doccia e la lavatrice! Le PR subiscono una brusca frenata e i veri amici, che mi conoscono e non amano vedermi “gocciolare”, sanno che si devono accontentare di sporadici messaggi, telefonate sparse e un immenso affetto a distanza: gli incontri riprenderanno attorno ai 15 gradi. Vestirmi e uscire di casa è una vera e propria tortura, caratterizzata dai pericolosissimi percorsi sui mezzi pubblici, con una irregolare alternanza caldo-freddo, laddove il caldo è accompagnato da odori e miasmi pestilenziali e il freddo ti avvicina sensibilmente ai pinguini del Polo Sud. In ufficio abbiamo un condizionatore che è oggetto di varie diatribe (per me è troppo caldo, per altri troppo freddo…) ma che almeno aiuta a lavorare e ad arrivare a fine giornata, quando mi tocca affrontare il viaggio di ritorno verso casa che, credetemi,
mette a dura prova la mia resistenza psico-fisica. Soprattutto “psico”, direi! Già, perché questo caldo killer colpisce profondamente anche il mio equilibrio mentale, tirando fuori il mio lato peggiore…e un certo istinto omicida che mi porta, nonostante la mia indole decisamente pacifica, a mal sopportare qualsiasi essere vivente che incrocio durante il tragitto verso la mia agognata dimora. Chi fra voi, come me, si sposta con i mezzi pubblici può comprendermi…gli altri vogliono qualche esempio? Eccovi serviti. Fra i tanti esemplari che si possono incontrare e che viene voglia di eliminare, troviamo il manager rampante, impeccabile in giacca e cravatta anche con 45° all’ombra, che deambula con gli occhi incollati al cellulare o al tablet. Ovviamente risponde con l’auricolare a tutte le chiamate, mantenendo un tono di voce talmente alto da riuscire a farsi sentire anche sul treno che corre nella direzione opposta e condividendo con tutti i passeggeri i suoi successi lavorativi e/o amorosi. Molto simile al primo è la “sciura” che chiama la mamma e chiede ragguagli sulla popò del bimbo affidato alla nonna, scendendo in particolari raccapriccianti. E poi la carrellata continua con, in ordine sparso, la mamma stremata e ormai indifferente alle urla del suo bambino che presenta doti canore alla Pavarotti, l’ottimista che crede che il deodorante duri davvero 48 ore senza lavaggi e quello che tiene la stessa maglietta per tutta la settimana, la “lady” che (beata lei!) non suda e guarda tutti con disgusto, lasciando una scia di profumo costosissimo su tutto il treno, gli studenti che ridono per qualsiasi cosa e non si reggono “agli appositi sostegni”, schiacciando i piedi a destra e a manca senza chiedere scusa, i “machi” con le canotte che si appendono ai famosi “appositi sostegni” emanando odori paragonabili alle fogne di Calcutta e le donne che girano praticamente in bikini e infradito….insomma una flora e una fauna che ti fa
ardentemente desiderare una nuova glaciazione con conseguente estinzione della razza! E in mezzo a tutto ciò ci siamo noi, i pochi, rari esempi di umanità apparentemente normale. Tranquillamente seduti, magari leggendo un libro, o in piedi, utilizzando “gli appositi sostegni”, sudati sì ma fondamentalmente puliti e quindi non puzzolenti, stanchi dopo una giornata di lavoro e desiderosi di un po’ di pace e refrigerio. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociano, ci si riconosce e si abbozza un sorriso e allora ci si rende conto di non essere proprio così soli e che c’è qualcun altro che sta soffrendo come noi! In buona sostanza il caldo killer genera altri “mostri” e altri crimini. Viene uccisa la già agonizzante buona educazione, torturata a morte la decenza, assassinato il gusto, trucidata l’igiene e, infine, si suicida disperata la civiltà, quella che i nostri nonni chiamavano “buona creanza”. E tutti questi crimini, a differenza di ciò che succede nei libri e nelle serie TV, rimangono impuniti e si ripetono ogni giorno. Per questo sostengo che il caldo sia un vero e proprio serial killer che mi esaspera e mi lascia senza fiato, senza forze e senza la minima capacità di reazione…non credete?!? Nessuna ricetta, nessun ingrediente, quindi, ma solo il consiglio di non diventare complici, di cercare di reagire, mangiando un gelato o una bella fetta di anguria e regalando un sorriso, sudato sì, ma pur sempre capace di dare un po’ di tregua in questo mondo così accaldato! Buona serata e alla prossima!



19/06/2019

ALFRED HITCHCOCK, IL MAESTRO DEL BRIVIDO


Fra libri e serie TV, nel mio blog, non potevo di certo non dedicare un posto d’onore a quello che viene da sempre definito “il maestro del brivido”: il grande e inimitabile Alfred Hitchcock! Ho guardato e riguardato quasi tutti i suoi film e telefilm…e dico “quasi” perché alcune delle prime pellicole sono difficili da recuperare. Cercare di parlare di lui, della sua vita e delle sue opere risulterebbe molto riduttivo e non basta un unico post. Quindi ho deciso di darvi un accenno della sua persona e personalità e di parlarvi di alcuni dei suoi film, dividendoli in diversi post nell’arco dei prossimi mesi. Non seguirò una sequenza temporale né un filo conduttore ma mi lascerò semplicemente guidare da una sorta di mia “classifica” personale dei suoi film, cercando di farvelo conoscere, se mai ce ne fosse bisogno, e di
trasmettervi la mia grande passione per questo regista unico nel suo genere! Sir Alfred Joseph Hitchcock nato a Londra nel 1899 e naturalizzato americano. I suoi genitori avevano un negozio di frutta e verdura ed erano ferventi cattolici; cercarono di trasmettere ai tre figli la dottrina unita alla disciplina, allo studio ed all’attaccamento al lavoro ed alla famiglia, senza, però, dimenticare lo svago. E così la famiglia Hitchcock frequentava assiduamente i teatri e il giovane Alfred si appassiona e osserva con curiosità e stupore le scenografie, gli attori e le attrici. La passione per il teatro lo accompagnerà sempre, tanto da inserirlo come sfondo in diversi suoi film. Hitchcock inizia presto a lavorare e, nel frattempo, scrive qualche racconto per la rivista aziendale e legge avidamente i più grandi autori britannici; continua a frequentare i teatri e comincia a conoscere il cinema e ad apprezzarne la magia. Nel 1920 viene assunto da uno studio cinematografico, quello che poi diventerà la Paramount Pictures, e si occupa di scrivere e disegnare le didascalie per i film muti. Esegue il lavoro con dedizione, facendolo spesso di notte, per non lasciare la sicurezza del lavoro in azienda. I passi successivi si susseguono negli anni: tuttofare, aiuto regista, aiuto sceneggiatore, montatore…si adatta a tutte le mansioni pur di entrare in quel mondo che fin da ragazzino ha sempre sognato, finché arrivano i primi incarichi da regista. Conosce gli alti e bassi del mestiere, riscuotendo dei discreti successi, alternati a fiaschi deludenti. In questi anni conosce Alma Reville,
sua coetanea e brillante sceneggiatrice. Si sposeranno nel 1926 e rimarranno insieme fino alla morte. La loro unione li porterà a lavorare insieme e li renderà genitori di Patricia, la loro unica figlia. Alfred Hitchcock ha vissuto e lavorato prima a Londra e poi a Los Angeles e anche la sua produzione si può dividere in due grandi periodi: il periodo britannico, che va dal 1925 al 1940, durante il quale ha diretto ventitré film, di cui nove muti, e il periodo statunitense, che va dal 1940 al 1976, durante il quale ha diretto trenta film, fra i quali si annoverano i più conosciuti. Fu unico nel suo genere e, nonostante la critica non l’abbia sempre incoraggiato, riuscì ad esprimere il suo genio attraverso le sue pellicole. La suspense, a suo avviso lo strumento più potente per tenere lo spettatore incollato allo schermo, è presente in tutti i suoi film, insieme a diversi effetti scenografici, che lui stesso creò, e a un certo humor tutto britannico, che riusciva ad alleggerire anche i gialli più intricati. Le sequenze, le riprese, i tempi, i giochi di luce e ombra…ogni inquadratura aveva una sua motivazione e importanza. Potrei dilungarmi ancora e ancora perché non si finisce mai di parlare del maestro del brivido ma per ora mi fermo, ricordandovi che Hitchcock morì nel 1980 per problemi cardiaci e lasciò un grande vuoto nel mondo
del cinema. Per questo primo “assaggio” del grande “Hitch”, come molti lo chiamavano, ho scelto di proporvi il bellissimo film “Caccia al ladro” (To catch a thief) del 1955, con Cary Grant e Grace Kelly nei panni dei due protagonisti principali. A coloro (credo pochi) che non l’hanno mai visto, consiglio di farlo al più presto!  Ambientato nella magnifica Costa Azzurra, narra le peripezie di John Robie, ladro di gioielli noto in tutta la Francia come “il gatto”, ritiratosi dalla “professione”. Dopo essere stato scarcerato e aver combattuto nella Resistenza francese, infatti,  conduce una vita tranquilla in una fantastica villa quasi isolata, nelle colline della costa, dedicandosi alle sue vigne. Quando iniziano a verificarsi dei furti di gioielli che ripetono fedelmente il suo “modus operandi”, Robie dovrà cercare il vero colpevole per difendersi dalle accuse della Polizia e dei suoi stessi ex compagni di prigione e riabilitare, così, il suo nome. Per farlo decide di collaborare con Hughson, assicuratore dei Lloyds’ di Londra, e di cercare di prevenire le mosse del suo imitatore. Si finge un facoltoso uomo d’affari americano e conosce la signora Stevens e la sua affascinante figlia, Frances, con la quale si instaura subito una particolare “amicizia”. Con il loro aiuto e, soprattutto, con la sua astuzia John riuscirà a scagionarsi e….basta, non dico altro, vi lascio
con la suspense: se l’avete già visto sapete come finisce e se non l’avete già visto…lo scoprirete guardandolo! “Caccia al ladro” è uno dei film più “leggero” del maestro, pieno di battute brillanti ed ironiche, di scene passate alla storia, come il viaggio in auto di John e Frances o il loro bacio con i fuochi d’artificio sullo sfondo, ed ancora di eleganza e di fascino. E di gusto, ovviamente. Hitchcock, infatti, amava il cibo, in particolare quello raffinato, ed era ghiotto dei piatti della cucina francese. In questo film le rende omaggio con un piatto semplice ma raffinato: John Robie accoglie nella sua villa il signor Hughson e gli offre una quiche lorraine, preparata dalla sua governante Germaine. L’inglese apprezza questa specie di “torta salata” e fa i complimenti, gustandola sulla veranda con vista mare. Beh! Ovviamente vi propongo proprio questa ricetta, della quale esistono diverse varianti. Io ho cercato quella più accreditata come l’originale, nata nella regione della Lorena (da cui prende il nome) e l’ho cucinata (e mangiata!) per voi!


QUICHE LORRAINE Ingredienti per 4 persone: 400 gr pasta brisée • 200 gr pancetta affumicata • 200 gr formaggio emmentaler • 200 gr cipolla bianca (o cipollotti) • 4 uova • 150 ml panna fresca • 150 ml latte intero • 15 gr parmigiano grattugiato • sale • pepe • rosmarino • olio extravergine d'oliva
Preparate la pasta brisée e fatela riposare in frigorifero per 30 minuti (in alternativa potete usare quella già pronta). Sbattete con la frusta le uova in una ciotola, unite il parmigiano, regolate di sale e pepe e mescolate. In un pentolino scaldate la panna ed il latte portandoli quasi al bollore, poi uniteli alle uova e mescolate bene. Coprite con pellicola e mettete in
frigorifero a riposare. Affettate non troppo sottilmente la cipolla bianca, versatela in una padella ampia e rosolatela con un filo d'olio a fuoco basso, sfumate con un goccio di acqua e cuocete con coperchio per 10 minuti. Tagliate la pancetta a dadini, unitela alla cipolla e fate rosolare. Riprendete la brisée dal frigo e tiratela in una sfoglia di circa 2-3 mm. Rivestite solo il fondo di una tortiera di 22-24 cm di diametro con carta forno e adagiate la sfoglia. Rifilate il bordo con una rotella liscia e premetelo bene contro lo stampo (che non avrete imburrato). Bucate il fondo con i rebbi di una forchetta poi ricoprite con un foglio di carta forno ed uno strato di fagioli secchi. Cuocete a 180° per
15 minuti. Sfornate la base ed eliminate la carta ed i fagioli. Prendete il composto di uova e panna dal frigo e mescolatelo bene. Distribuite la pancetta sulla base, poi l'emmentaler tagliato a cubetti. Versate infine sulla quiche il composto di uova e panna rimanendo fino a pochi mm dall'orlo. Infornate a 170° per 30-40 minuti a seconda del grado di doratura che preferite. Sfornate e lasciate raffreddare prima di togliere dallo stampo. Vi assicuro che farete un figurone...anche se non abitate in una villa sulle colline della Costa Azzurra! Buon appetito e alla prossima!