01/12/2021

L’ISPETTORE CHOPRA E L’ELEFANTINO GANESH: UNA STRANA COPPIA DI INVESTIGATORI A MUMBAI

Nell’ultimo giorno prima della pensione, l’ispettore Ashwin Chopra scoprì di aver ereditato un elefante…” Inizia così il primo libro di Vaseem Khan “L’inaspettata eredità dell’ispettore Chopra” sottotitolato “Il primo caso dell’agenzia investigativa Baby Ganesh”. E direi che, già dalle prime righe, promette di essere decisamente originale. Non appena ho letto il titolo e ho visto la copertina tutta colorata di questa opera prima…beh! Mi conoscete ormai: non ho saputo resistere. Sarà che adoro tutto ciò che è indiano, sarà che mi sono molto simpatici gli elefanti, sarà pure che spesso, anzi, spessissimo, mi lascio influenzare dal primo colpo d’occhio…fatto sta che questo libro mi ha colpito e attirato, l’ho letto tutto d’un fiato e vi assicuro che è davvero spassoso! Sì, spassoso! Certo, è un racconto poliziesco ma in alcuni tratti è quasi comico, permeato dalla simpatia dei suoi personaggi, ciascuno con un carattere particolare. Ma andiamo per ordine…Anzitutto l’autore. Vaseem Khan, nato a Londra nel 1973 da genitori indiani, si è laureato in Economia e Finanza, ha lavorato diversi anni in India e poi è tornato in pianta stabile nel Regno Unito, lavorando
per il Dipartimento di Sicurezza e Scienze criminologiche dello University College di Londra. Fra le sue passioni, i primi tre posti sono occupati dalla letteratura, dal cricket e dagli elefanti. Ed è proprio un elefante il personaggio “quasi” principale di questo suo romanzo d’esordio, che gli ha subito permesso di conquistare critica e pubblico. L’elefante in questione è un cucciolo, il “piccolo” Ganesh, che viene lasciato in eredità ad un ispettore della polizia di Mumbai proprio nell’ultimo giorno di lavoro, prima della pensione anticipata. Già, perché Ashwin Chopra, ispettore coscienzioso e integerrimo, anglofilo, poliziotto “nel midollo”, innamorato della grande Mumbai e della sua adorata e stravagante moglie Archana (Poppy per lui e per gli amici), dopo più di vent’anni di lavoro si vede costretto ad anticipare la pensione a causa di un problema cardiaco. Il responso medico non ha lasciato scampo quando, qualche mese prima, era miracolosamente sopravvissuto ad un attacco di cuore “non si tratta di una cosa molto grave ma potrebbe diventarlo…il prossimo episodio potrebbe essere fatale”, aveva detto il cardiologo e Poppy era quasi svenuta. In quel momento l’ispettore Chopra aveva capito che la sua vita sarebbe irrimediabilmente cambiata. E per l’ennesima volta aveva sentito l’acidissima suocera, che viveva in casa con lui e Poppy, rivolgersi alla figlia dicendole che aveva proprio fatto male a sposarlo, che avrebbe dovuto scegliere ben altro partito eccetera eccetera…Così vediamo il buon Chopra che, con la tristezza nel cuore, sale per l’ultima volta sull’auto di servizio guidata dal suo fidato collaboratore Rangwalla, diretto alla stazione di polizia dove per tanto tempo ha cercato di far rispettare la legge e di stare sempre dalla parte della giustizia. Pensava che avrebbe trascorso la giornata salutando i colleghi, fingendosi sorpreso davanti alla piccola festicciola che da settimane stavano preparando (teoricamente di nascosto…ma a lui non sfugge mai niente!!), raccogliendo le sue poche cose e sistemando le ultime scartoffie…invece proprio in quell’ultimo giorno si trova davanti ad un caso di omicidio goffamente camuffato da incidente. Le sue grandi doti di segugio e la sua innata capacità di “vedere oltre” le apparenze lo mettono subito in allerta, pronto ad entrare in azione. Non gli è concesso: il caso viene
assegnato ad un altro ispettore che non andrà in pensione dal giorno dopo e che probabilmente archivierà il caso in meno di una settimana. Davanti alla madre della vittima, però, che chiede giustizia per il giovane figlio ucciso in modo brutale, l’ispettore Chopra promette che troverà il colpevole, anche da pensionato, anche senza la divisa, perché un poliziotto è un poliziotto finché campa. E dal giorno dopo, incapace di stare fermo e inerte come ci si aspetterebbe da lui, l’ispettore in pensione Ashwin Chopra inizia ad indagare per conto suo, affiancato nientemeno che dal “piccolo” Ganesh, che lo segue in giro per la città. Ben presto le sue indagini lo porteranno a scoprire un giro di corruzione che arriva fin dentro le fila della polizia, coinvolgendo funzionari e alte cariche della città, arrivando a toccarlo da vicino e a fargli provare rabbia, tristezza e tanta amarezza. Nonostante la serietà del caso e i pericoli affrontati, le indagini di Chopra e Ganesh trasportano il lettore nelle vie della brulicante Mumbai, piena di contrasti e di persone, pronta ad inghiottire chiunque nel suo marasma. La caparbietà e la calma di Chopra, che indaga senza sosta, la gelosia e le sofferenze di Poppy, per il suo istinto materno spezzato dalla sterilità, la tenerezza di Ganesh, che si rivelerà essere un elefante speciale, la fedeltà di Rangwalla, affezionato al suo ormai ex capo, i giochi e le urla dei bambini, i traffici più o meno leciti dei commercianti, gli occhi dei malavitosi e quelli delle persone “per bene”…tutti concorrono a rendere questa avventura intrigante e coinvolgente, parlando di un paese e di un popolo che sono unici. Questo di Khan è un libro che mi sento di consigliare a chi vuole leggere qualcosa di “diverso”, di divertente e profondo allo stesso tempo, a chi riesce a capire il serio che cela il faceto e viceversa. E sono sicura che, come me, amerete Chopra e tutti gli altri e, come me, vorrete leggere le altre indagini dell’agenzia investigativa Baby Ganesh. E il gusto? Vi starete chiedendo che ne è del gusto…signori, siamo in India! Siamo nella terra delle spezie, dei colori e dei profumi che esaltano i sapori! Poppy è una cuoca sopraffina che vizia il palato e lo stomaco del suo amato Ashwin, preparandogli piatti tipici della cucina indiana (che io adoro!). E fra questi ho scelto uno di quelli più conosciuti: le samosa. Si tratta di triangoli croccanti ripieni di verdure, carne o pesce. Quelle più conosciute sono fritte, ripiene di verdure e con un mix di spezie diverso per ogni regione, città, quartiere, famiglia…Praticamente ne esistono una marea di versioni, ciascuna con un sapore unico! Io vi propongo quelle più “classiche” che ho assaggiato a New Delhi tanti anni fa. Le ho rifatte usando la pasta sfoglia già pronta e le ho cotte al forno, anziché friggerle (Se le preferite fritte usate la fillo, mi raccomando). Mi sono venute bene e le ho proprio gustate. Provateci anche voi e poi fatemi sapere cosa ne pensate.

SAMOSA VEGETARIANI

Ingredienti per circa 6/8 Samosa  – Un rotolo di pasta sfoglia - 250 g di patate - 80 g di piselli - 60 g di

cipolla - 1 cucchiaino di zenzero in polvere - 1 cucchiaino di semi di cumino - 1 cucchiaino di curcuma - 1 cucchiaino di semi di coriandolo - 1 cucchiaino di Garam Masala - Qualche fogliolina di menta fresca - Olio di semi e sale q.b.

Iniziate lessando le patate in una pentola capiente. Sistemate le patate in pentola e coprite con abbondante acqua fredda e dal momento in cui l’acqua sarà a bollore contate circa 20-30 minuti; fate la prova forchetta e se i rebbi entreranno senza difficoltà allora potrete scolarle. Pelate le patate mentre sono ancora calde, lasciatele raffreddare leggermente e tagliatele a cubetti di 1cmx1cm circa. Tagliate anche la cipolla a fettine sottili e a questo punto scaldate due cucchiai abbondanti d’olio di semi (se preferite potete usare anche il ghee, molto popolare nella cucina indiana) in una padella antiaderente e aggiungete le cipolle, le patate e i piselli. Lasciate rosolare fino a

che le cipolle non saranno leggermente appassite. Quindi aggiungete tutte le spezie (se qualcuna non vi piace potete non metterla, ovviamente!) e amalgamate tutto per bene cercando anche di schiacciare leggermente parte delle patate (se il ripieno risultasse troppo asciutto aggiungete un mezzo bicchiere d’acqua mentre cuoce). Una volta che il ripieno sarà ben omogeneo spegnete il fuoco e lasciatelo raffreddare completamente. Tagliate la pasta sfoglia in 6/8 quadrati uguali, prendete un cucchiaio di ripieno e ponetelo dentro ogni quadrato, cercando di non esagerare altrimenti non riuscirete a chiuderli. Chiudeteli formando dei triangoli, disponeteli sulla teglia, rivestita con carta da forno, e cuoceteli a 180° per circa 15/20 minuti, controllandoli ogni tanto per evitare che diventino troppo scuri. Ed eccoli pronti!! Mangiateli super caldi appena usciti dal forno perché saranno croccantissimi. Potete servirli con una crema a base di yogurt o della maionese o…semplicemente così…finiranno in un batter d’occhio! E provate a sbizzarrirvi creando la vostra versione, giocando con le verdure e le spezie che più vi piacciono! Buon appetito e alla prossima!

10/10/2021

COMMISSARIO KOSTAS CHARITOS, IL FRATELLO GRECO DI MAIGRET

Ho iniziato a leggere il primo libro di Petros Markaris quasi per caso, con un po’ di scetticismo ad essere sincera…ma poi appena ho “incontrato “il commissario Charitos è stato un colpo di fulmine (letterario si intende)!!! Markaris, nato nel 1937 da padre armeno e madre greca, è uno scrittore e sceneggiatore e ha ricevuto diversi premi e onorificenze nel corso della sua carriera.  La grande fama, però, arriva a metà degli Anni Novanta, quando crea il “suo" personaggio: il commissario Kostas Charitos, definito dalla critica internazionale “il fratello greco di Maigret”. Io ho già deciso che pian piano leggerò tutti i libri che lo vedono protagonista e lo consiglio vivamente anche a voi...ma per ora, come da prassi, vi parlerò del primo della serie: “Ultime della notte". Anzitutto qualche parola per presentarvi il protagonista. Pigro, disilluso, fermo in una carriera che poco gli interessa e in un matrimonio stanco, il commissario Charitos in un primo momento potrebbe risultare anche antipatico, poi però man mano che si approfondisce la sua conoscenza, ci si ricrede (almeno per me è stato così).
Vive ad Atene, legge solo i dizionari, odia tutto ciò che è troppo innovativo (non sopporta nemmeno i bancomat!) ed è sposato con Adriana, litigiosa, pessimista, TV dipendente appassionata di telenovela e di shopping e fortunatamente (per lui) ottima cuoca, con la quale ha una figlia, Katerina, unica grande gioia e orgoglio della sua vita, che vede troppo poco perché studia legge a Salonicco. Beh, a dire il vero ci sono anche altre cose che il nostro commissario brontolone mal sopporta: la burocrazia, le riunioni con il capo, il capo (!), le bugie, i criminali (in particolare chi fa soffrire i più deboli e indifesi) e i giornalisti. Già, i giornalisti...sempre a caccia di notizie e sempre pronti ad attaccare la Polizia e a travisare ogni singola parola, utilizzandola per fare audience in televisione o per vendere più copie dei loro giornali, senza pensare nemmeno lontanamente alle conseguenze delle loro affermazioni e delle loro allusioni. Tutto viene spettacolarizzato, sbattuto in prima pagina, soprattutto la sofferenza e la morte. E in questa sua prima avventura Charitos si deve occupare proprio dell’omicidio di una delle giornaliste più famose e agguerrite della TV greca, Ghianna Karaghiorghi. Il commissario è solo uno dei tanti che la odiavano e dovrà faticare non poco a trovare il suo assassino. Così, insieme al brigadiere Thanasis, uomo decisamente poco brillante e dalle dubbie capacità, Charitos deve obbedire ai superiori e mettere da parte un’indagine già in corso per buttarsi a capofitto in quella che diventa una vera e propria caccia all’assassino della cinica reporter. E anche se può essere pigro e poco incline all’azione, il nostro commissario ama e rispetta il suo lavoro e vuole che ogni ad ogni vittima venga assicurata giustizia, quindi il colpevole deve essere arrestato, chiunque egli sia. Si ritroverà a dover affrontare testimoni reticenti e bugiardi, segreti nascosti da tanti e da tanto, coinvolgimenti di illustri insospettabili, corruzione, malaffare, strani e inspiegabili “incroci” con l’indagine precedentemente e frettolosamente sospesa…e si vedrà attaccare da più fronti. Da una parte i giornalisti, come sempre occupati a coglierlo in fallo e a dimostrare l’incapacità della Polizia, seguendo proprie indagini parallele e nascondendo informazioni importanti, e dall’altra i suoi diretti superiori, che gli alitano sul collo e lo invitano alla prudenza, più preoccupati dell’opinione pubblica e del coinvolgimento di personaggi importanti che non della giustizia e della verità. E a casa non va di certo meglio: Adriana lo assilla perché è poco presente e le riserva poche attenzioni e lui si rifugia fra le pagine dei suoi dizionari, per cercare un po’ di pace. Ma a dargli il colpo finale è l’adorata figlia, quando gli comunica che non potrà venire a casa per le ormai prossime festività natalizie…Insomma il buon Charitos sembra avere tutto e tutti contro e
quindi non gli resta che fare ciò che gli viene meglio: sistemare tutti i pezzi di questo intricato puzzle e chiudere il caso. Sullo sfondo, quasi in secondo piano ma tutt’altro che marginale, la città di Atene. Caotica e pulsante, moderna e vittima di un’urbanizzazione selvaggia, afflitta da immensi ingorghi, che alterna, come tutte le metropoli, quartieri belli e tranquilli a quartieri brutti e malfamati. Markaris ne parla come di un palcoscenico sul quale tutti i personaggi si muovono, entrando e uscendo di scena quasi casualmente, senza un ordine preciso e senza seguire un copione. E quella che emerge è l’umanità, quella vera, con le sue debolezze e i suoi punti di forza, con le luci e le ombre, le gioie e i dolori, i valori e le devianze, la vita e la morte. Nessuno fa niente per niente, tutti si muovono con un preciso scopo: quello di prevalere sull’altro. Ciascuno con le proprie motivazioni, più o meno importanti, legate al bene o al male. Markaris ci presenta una serie di personaggi bianchi e una di personaggi neri…ma poi ne mette qualcuno colorato, qua e là, per farci capire che non tutti sono uguali, quasi per rincuorarci, per darci una speranza, per dirci che in fondo qualcuno di “meno uguale” c’è sempre. Come vi dicevo vi invito a leggere questo e gli altri libri di questo autore, capace di coinvolgere i suoi lettori dalla prima all’ultima pagina, per mettersi a fianco del suo commissario. E per quanto riguarda il gusto? Kostas Charitos è un vero amante del cibo ed è ghiotto di tutti i piatti tipici della cucina greca. Il suo preferito, però, è quello che sua moglie riesce a preparare ancora meglio di sua madre: la gemistà. Si tratta di un piatto tipico della cucina greca, appunto, che ha origini antichissime, a base di verdure e riso. Può essere mangiato sia caldo che freddo e viene realizzato soprattutto durante i mesi estivi in quanto è più facile reperire gli ingredienti freschi. Charitos ne mangerebbe a chili e quindi ho deciso di provare a cucinarlo…beh! Devo dire che mi è piaciuto e sono sicura che lo rifarò, magari con qualche “accorgimento” in base ai miei gusti. A voi, ovviamente, propongo la ricetta originale.

GEMISTÀ (γεμιστά)

Ingredienti per 3-4 persone: 4 pomodori maturi - 4 peperoni verdi varietà corno - 10 cucchiai da minestra colmi di riso (carnaroli o arborio) – 1 cipolla bianca - 1 ½ cucchiaio da minestra di uvetta nera - 1 ½ cucchiaio da minestra di pinoli - 7- 8 foglioline di menta fresca tritata - un pizzico abbondante di menta secca - 2 cucchiai da minestra di prezzemolo tritato – sale – pepe - olio evo - una manciata abbondante di formaggio grattugiato (casera, caciocavallo, fontina, asiago, provolone... sceglietevene voi uno che vi piace!) - 2 patate medie - 1 lattina di polpa di pomodoro – sale - pan grattato - una tazzina da caffè olio evo

Una premessa: pomodori e peperoni vanno scelti per quanto possibile della stessa dimensione per avere una cottura uniforme. I pomodori ramati, quelli che vengono anche definiti a grappolo, vanno benissimo per questa ricetta, importante però è che siano maturi e sodi. I peperoni verdi, invece, devono essere della varietà corno. Sceglieteli possibilmente dritti, senza curvature e di circa 10-12 cm. di lunghezza. Iniziate lavando e asciugando pomodori e peperoni. Prendete i pomodori, tagliate una calotta dalla parte del picciolo e con un cucchiaino svuotateli con attenzione per non romperli. Svuotateli senza lasciare troppa polpa attaccata alle pareti ma nemmeno ridurli a carta velina. Polpa e succhi vanno raccolti in una ciotola. Tagliate una calotta anche ai peperoni e puliteli da eventuali semi e filamenti. Mettete intanto in ammollo in acqua fredda l’uvetta per 10 minuti, tritate la polpa dei pomodori che sono stati svuotati e raccolti nella bacinella insieme ai succhi e tostate a secco i pinoli per 2 minuti in una padella antiaderente. Tritate la cipolla e mettetela in una padella antiaderente, versandovi abbondante olio evo. Stufatela a fiamma bassa per 5-6 minuti, aggiungete i pinoli e procedete con la cottura per circa 2 minuti. Unite il riso e insaporite, girando spesso per 2 o 3 minuti. A questo punto versate la polpa dei pomodori che sono stati svuotati insieme ai succhi raccolti, salate, pepate e unite l’uvetta scolata, il prezzemolo, la menta fresca e quella secca. Mescolate e cuocete fino a quando non venga assorbita la maggior parte dei liquidi, lasciando il riso morbido “all’onda” (in genere 5 – 6 minuti sono sufficienti). Ritirate dal fuoco e aggiungete il formaggio, grattugiato
grossolanamente. Mescolate bene, assaggiate e nel caso aggiustate di sale. Farcitura, assemblaggio e cottura: Tagliate le patate a spicchi e salatele leggermente. Con un cucchiaio riempire le verdure fino a tre quarti, senza pigiare la farcitura (il riso si gonfierà ulteriormente durante la cottura e deve avere lo spazio necessario per non rischiare di strabordare). A questo punto accendete il forno a 180 gradi. Una volta farcite tutte le verdure copritele con la loro calotta e sistematele nella teglia. I pomodori vanno messi in piedi mentre i peperoni essendo lunghi e stretti vanno sistemati sdraiati. Attenzione quindi a metterli con la calotta verso le pareti della teglia per non rischiare che si sposti durante la cottura. Sistemate gli spicchi di patate negli interstizi. Allungate la polpa di pomodoro con 150 ml di acqua e versate tutto nella teglia. Spargete un poco di sale su tutte le verdure e del pangrattato sulla calotta dei pomodori. Fate un abbondante giro di olio evo, coprite con della carta stagnola e infornate per 50 minuti irrorando con il sughetto del fondo dopo 25 minuti. Trascorsi i 50 minuti, togliete la carta stagnola, irrorate di nuovo e continuate la cottura per altri 45 minuti, irrorando dopo 20 minuti. Ultimata la cottura, togliete dal forno e aspettate almeno un’ora prima di servire: le verdure hanno bisogno di riposare per amalgamare ed esaltare tutti i sapori. Gustate questo piatto accompagnandolo con della feta e un bicchiere di vino bianco fresco e…καλή όρεξη (kalì òrexi = buon appetito)!

29/09/2021

LA FINESTRA SUL CORTILE E…IL MIO RIPOSO FORZATO!!!

Ho già avuto modo di dirvi quanto io ami il grande genio di Hitchcock e tutti i suoi film…fra questi ce ne sono diversi che mi piacciono e che, quando capita, rivedo volentieri. “L’uomo che sapeva troppo”, “Il delitto perfetto”, “La donna che visse due volte”, “Psycho” …potrei elencarli tutti perché ciascuno di essi è un vero capolavoro. Per me, però, il primo fra tutti, senza nulla togliere agli altri, è “La finestra sul cortile” (titolo originale “Rear window”). Uscito nel 1954, ha riscosso subito un enorme successo e negli anni è diventato una pietra miliare della storia del cinema, tanto da aggiudicarsi diversi riconoscimenti e da essere inserito nei cento migliori film statunitensi di tutti i tempi. Immagino che molti di voi lo conoscano già e a chi non l’ha mai visto posso solo dire: cosa aspettate?!?!? Guardatelo!!!La storia è molto semplice: il fotoreporter L.B. “Jeff” Jefferies (interpretato magistralmente dall’ineguagliabile James Stewart) in seguito ad un incidente è costretto a casa, sulla sedia a rotelle, con la gamba sinistra completamente ingessata. Stanco e annoiato, in attesa di togliere il gesso e sofferente per l’ondata di caldo eccezionale, inizia quasi per gioco a osservare i vicini di casa. Il binocolo e la sua macchina fotografica, dotata di teleobiettivo, lo aiutano così a distrarsi. Spiando tutte le persone che occupano i diversi appartamenti, Jeff entra di fatto nelle loro case,
nelle loro vite, si diverte a dare loro dei soprannomi, a cercare di capire cosa fanno, cosa sentono, come vivono le loro relazioni o la loro solitudine. E così il cortile sul quale tutti si affacciano diventa una sorta di teatro, un palcoscenico sul quale va in scena la vita vera. Jeff “conosce” la coppia di sposi novelli, la ballerina procace, il compositore in crisi creativa, l’artista single, la coppia senza figli con il cagnolino, la signorina ribattezzata “Miss cuore solitario” e un’altra coppia, i Thorwald, trasferitasi da pochi giorni, apparentemente in crisi matrimoniale. Jeff cerca di condividere questa sua curiosità con Stella, l’attempata infermiera sarcastica e premurosa che lo assiste durante la convalescenza (e che ha il volto della simpaticissima Thelma Ritter), e con Lisa Freemont, la sua
bellissima e aristocratica fidanzata (interpretata dalla magnifica Grace Kelly), che lo ama intensamente e spera in cuor suo che lui si decida a sposarla e a smettere di girare il mondo per i suoi reportage. Le due donne inizialmente lo accusano di essere un vero e proprio guardone e lo invitano a smettere con quella specie di divertimento di cattivo gusto…ma poi si fanno coinvolgere, loro malgrado, quando Jeff dice loro di sospettare che il signor Thorwald (il bravissimo Raymond Burr) abbia ucciso sua moglie, occultandone poi il cadavere. Da quel momento il fotoreporter inizia una vera e propria indagine, sempre più convinto della colpevolezza del vicino e, in un crescendo di suspense degno del Maestro del brivido, arriva a far arrestare Lisa e a rischiare la vita per smascherarlo. Non mi dilungo in altri particolari e non svelo altri dettagli perché spero che quei pochi che ancora non l’hanno fatto, si incuriosiscano e si decidano a guardarlo…tutti gli altri, beh! Sapete già come va a finire ma potete sempre riguardarvelo! Vi starete domandando, a questo punto, due cose…anzitutto quando il nostro Jeff riesce a mangiare, tutto preso com’è con il suo teleobiettivo. E poi…perché mai vi sto parlando di un altro film di Hitchcock? Per quanto riguarda la prima domanda, in effetti Stella e Lisa si alternano a preparare dei pasti al “loro spione” ma niente di che…e così, come nei migliori “cliché” in stile hollywoodiano, Jeff si ritrova a mangiare dei sandwich (tristi e asciutti!) accompagnati dal solito bicchiere di latte. Del resto non c’è proprio tempo per pensare ad altro, quindi il gusto non
viene in alcun modo preso in considerazione!!! Alla seconda domanda, invece, rispondo che non smetterò mai di parlare di Hitchcock, così come di Agatha Christie e di altri mostri sacri della letteratura, del cinema e della televisione…quindi mettetevi il cuore in pace perché ogni tanto vi propinerò una delle loro opere. Inoltre sono a mia volta a “riposo forzato” da circa un mese e mai come ora mi sento vicina al buon vecchio Jeff! In seguito ad una brutta distorsione, infatti, ho dovuto fermarmi e farmi aiutare in tutto e per tutto. Certo, non ero immobile su una sedia a rotelle come il protagonista del film ma comunque dolorante e fissa sul divano, con la gamba sollevata, o sulla poltrona, cercando senza successo di utilizzare le stampelle per spostarmi dalla camera al bagno, dalla sala alla cucina…insomma un vero disastro! Adesso, grazie a Dio, va meglio e finalmente questo periodo di confinamento in casa volge al termine, anche se ancora non cammino benissimo. Vi assicuro che non è stato e non è facile e se non fosse stato per Emanuela, che mi ha aiutata e supportata non solo fisicamente, sarei davvero
impazzita!!! Quanto è facile dare per scontate tante piccole azioni quotidiane che poi ti sembrano enormemente importanti quando non riesci a compierle! Il lato positivo? Beh! Non ho potuto cucinare e non ho spiato nessuno (il mio cortile è decisamente meno interessante di quello di Jeff!) ma vi lascio immaginare quanti libri ho potuto leggere e quanto sono riuscita a lavorare al blog! Direi che questo di oggi è il post della riapertura dopo la pausa estiva e la convalescenza: vi aspetto la prossima settimana! Buona vita a tutti!




13/06/2021

LE MOLLICHE DEL COMMISSARIO VIVACQUA

Carlo De Filippis vive e lavora a Chieri, sulle colline torinesi. Ha esordito nel 2015 con "Le molliche del commissario", primo volume della serie che ha come protagonista Salvatore Vivacqua. “Nato a Palermo, laureato in Giurisprudenza, 90 chili per un metro e settantacinque, possente ma senza pancia, con più cicatrici che capelli e un carattere quadrato come la sua stazza”, Vivacqua ha lasciato la sua amata Sicilia per fare carriera al nord. Commissario di Polizia prima a Bergamo e poi a Torino, il nostro protagonista è sposato da più di vent’anni con Assunta, con la quale ha due figli, Fabrizio e Grazia, e…raccoglie molliche! Sì, avete capito bene, molliche! "C'è sempre una mollica, anche piccola, basta avere occhi buoni per trovarla": è questa, infatti, la frase che il commissario Vivacqua ripete come un mantra ogni volta che si trova alle prese con un nuovo caso. E Salvatore Vivacqua - Totò per gli amici - sa bene che dove c'è un delitto c'è sempre anche una traccia che il colpevole si è lasciato dietro. In questo romanzo di esordio il commissario si trova alle prese con due efferati omicidi e dovrà faticare non poco per risolverli. Da una parte il brutale omicidio di Don Riccardo, sacerdote molto benvoluto, dedito ai più deboli e bisognosi, e
dall’altra la morte di una ricca e nobile musicista, avvenuta apparentemente durante un gioco erotico. Nel bel mezzo delle indagini, poi, i suoi uomini più fidati, per seguire una pista, vengono coinvolti in un altro caso e tutta la squadra finirà sotto inchiesta. Non solo: la signora Rosa Marangio, una vecchia vedova siciliana conoscente di Assunta, arriva a Torino dicendo di aver affrontato il viaggio per cercare una cosa…senza dire, però, di cosa si tratta. Insomma una brutta settimana per il commissario e due indagini che non riesce a risolvere! E, come se tutto questo non bastasse, Vivacqua ha mal di denti e sua moglie gli rinfaccia continuamente di non aver accettato un lavoro nella sicurezza privata, decisamente meno pericoloso del suo e più remunerativo (…pur sapendo che il “suo” Totò non lascerà mai la Polizia!) Vivacqua dovrà scavare nel passato e rimestare nel torbido per risolvere i casi e assicurare i colpevoli alla giustizia, non senza rimanere con un po’ di amaro in bocca, perché la verità non sempre è bella e piacevole. Beh! Non scendo oltre nei particolari perché non voglio rischiare di rivelare troppo a chi vorrà ascoltare il mio consiglio e leggerà il libro. Inizialmente sembra l’ennesimo romanzo giallo, un po’ scontato, un po’ lento, con l’ennesimo poliziotto siciliano…ma vi assicuro che non è così! Man mano che si procede nella lettura, la narrativa di De Filippis riesce a coinvolgere il lettore pagina dopo pagina, in un’altalena di colpi di scena e buchi nell’acqua, fino ad arrivare all’epilogo e alla soluzione. Ho apprezzato sia lo stile dell’autore sia la simpatia sorniona del suo commissario e sono sicura che leggerò anche i due libri successivi a questo, sempre con Vivacqua protagonista: “Il paradosso di Napoleone” e “Uccidete il
Camaleonte”. Ovviamente, da buon siciliano, Salvatore Vivacqua ama il buon cibo e il buon vino e fa onore, quando riesce a concederselo, alla cucina di sua moglie. Fra i vari piatti citati e consumati fra una pista e l’altra, Totò descrive e apprezza particolarmente le polpette al sugo di Assunta, non fritte ma cotte direttamente in padella e affogate nel sugo. Si tratta di un piatto saporito, colorato e molto semplice da fare. E quindi ho deciso di riproporvele invitandovi a farle e ad assaggiarle.


POLPETTE AL SUGO ALLA SICILIANA

Ingredienti per 4 persone. Per le polpette: 200 gr carne di manzo macinata - 200 gr carne di maiale macinata - 1 Uovo – Latte - 2 fette di pane raffermo - 2 cucchiai di Parmigiano grattugiato - 2 cucchiai di Pecorino grattugiato - 1 mazzetto di prezzemolo – Sale  Per il sugo: 400 ml di Passata di pomodoro - 1 rametto di rosmarino - ½ Cipolla - Olio evo – Sale – pepe

Prendete le fette di pane raffermo e fatele ammollare in abbondante latte. Una volta che si saranno

ammorbidite ben bene, togliete la crosta, strizzate per bene per rimuovere il latte in eccesso e sbriciolate la mollica di pane, tenendola da parte. Prendete una ciotola e unite le due carni macinate. Aggiungete l’uovo, il prezzemolo tritato, e il formaggio grattugiato infine la mollica di pane sbriciolata e un pizzico di sale e cominciate ad impastare il tutto. Una volta che tutti gli ingredienti saranno ben amalgamati, cominciate a fare delle polpette delle dimensioni simili a quelle di un’albicocca (o più grandi se preferite). In una casseruola, mettete un filo d’olio, la cipolla tritata e il rosmarino fresco. Fate soffriggere la cipolla e non appena sarà dorata aggiungete la passata di pomodoro. Aggiustate di sale e pepe e coprite con un coperchio. Quando il sugo comincerà a sobbollire, aggiungete le polpette una dopo l’altra. Lasciate cuocere il tutto a fuoco lento per circa 40 minuti con il coperchio, controllando di tanto in tanto la cottura. Qualcuno preferisce fare prima rosolare un po’ le polpette e dopo unire il sugo…direi che si tratta di dettagli…il risultato sarà sicuramente eccezionale! Servite le polpette ben calde, con del pane fragrante ed un buon bicchiere di vino. Buon appetito e alla prossima!

23/04/2021

MILANO, MARZO 1978: IL COMMISSARIO NEGRI INDAGA

Oggi vorrei presentarvi un autore che è molto apprezzato nell’ambiente del giallo milanese: Oscar Logoteta. Si definisce “creativo, scrittore e padre. (O almeno ci provo - dice)” e di lui non si sa molto, se non che è nato a Milano nel 1983 e che ha esordito nel 2014 con il romanzo “A come Armatura”. Il libro racconta la vita di Nino, nato a Milano, figlio di calabresi “saliti al nord”, cresciuto negli anni difficili, gli anni cupi, gli anni di piombo. Con questo primo romanzo Logoteta si è fatto conoscere, ha avuto un discreto successo e negli anni successivi ne ha scritti altri. Quello che vi propongo è uscito nel 2017 ed è il primo che vede come protagonista il commissario Negri: “Milano disillusa. 1978, un’indagine del commissario Negri”. Milano marzo del 1978, appunto. La città è sconvolta dall’omicidio di Fausto e Iaio e, insieme a tutta l’Italia, dal rapimento di Aldo Moro ed è in questa atmosfera cupa, pesante e tesa che lavora il commissario Renato Negri, detto Renè. Figlio di Palmiro e nipote di Alcide, laureato in Lettere e
mancato docente, Negri è un poliziotto “sui generis”: si veste male, fuma, la mattina si alza sempre con un gran mal di testa perché la sera alza un po’ il gomito insieme agli amici. E lo fa per distrarsi dalle brutture del suo amato-odiato lavoro e per cercare di convivere con un passato doloroso, che spesso torna nelle lunghe notti insonni. Quando è all’opera, però, è davvero un bravo poliziotto: attento, preciso, ascolta, osserva, cerca indizi e annota tutto sul suo taccuino, dove, a poco a poco, tutti i pezzi del puzzle trovano il loro posto e la verità finalmente si mostra nella sua totalità. Il libro inizia in uno dei posti più noti del capoluogo lombardo: il Piccolo Teatro. Il “grande Bernini”, famoso illusionista e sedicente mago, giace a testa in giù, privo di vita, in una teca di vetro piena d’acqua…chi può essere riuscito a trasformare un famoso numero di escapologia in una trappola mortale? E, soprattutto, come? E, ovviamente, perché? Tutte domande al quale il Negri deve rispondere, insieme al suo fidato vice Palamara, il Nicola, e all’ispettore Coviello, ossia il Nennì...tutti rigorosamente con il loro articolo davanti, perché non dimenticatevi che siamo a Milano, eh! E per risolvere questo difficile caso dovrà addentrarsi in un mondo fatto di trucchi e di illusioni, andando oltre la razionalità che lo contraddistingue. Le indagini, gli interrogatori, le false piste, si alternano a momenti di leggerezza, quasi comici, in cui conosciamo i (pochi) punti fermi di Renè: la passione per la sua bella città, il Negroni “alla Negri” (che solo il Nino sa fare), le bevute con il suo amico il Beppe, il suo anziano e saggio vicino di casa “Vecchia Aquila” e i panini al chiosco del Frank (serviti dalla sua bellissima nipote Alessia…lei senza articolo!). Questi personaggi, apparentemente secondari, insieme all’amata Milano, sono il suo mondo, la sua famiglia, la sua vita. Il libro, vi assicuro, si legge in un soffio, “scivola via”, pagina dopo pagina, portando il lettore ad indagare fianco a fianco con il commissario Negri, arrivando a sentire i suoi mal di testa, a respirare il fumo delle sue sigarette e a cercare di concludere le indagini per riposarsi un po’. E così, standogli vicino, si può avvertire anche l’odore del Negroni e…delle cipolle! Sì, perché il Negri è ghiotto dei
panini del Frank e il suo preferito è una vera e propria arma letale “doppio salamella, cipolla, peperoni, maionese e – massì, una volta si campa – melanzane sott’olio passate velocemente alla piastra. E, forse l’ingrediente più importante, il bel sorriso di Alessia…” Certo non si può dire che il commissario sia un fine gourmet, né che abbia un palato sopraffino, anzi, ha sicuramente uno stomaco di ferro e delle papille gustative abituate a sapori forti e decisi! Fatto sta che riesce mangiare quasi tutti i giorni da Frank e trascina nelle sue incursioni al chiosco anche il Nicola e il Nennì, un po’ prevenuti ma ben felici di fargli compagnia. Quindi, signore e signori, la proposta culinaria di oggi è proprio un classicissimo panino con la salamella. Ovviamente non sono andata ad uno dei chioschi che, solitamente, si vedono nei pressi dello stadio o nelle strade più frequentate dai nottambuli in cerca di “street food” per fare l’alba in compagnia…un po’ perché non è proprio il momento (!), un po’ perché non è proprio nelle mie corde. Lascio volentieri al buon Negri queste “esperienze estreme” che non mi attirano più di tanto…del resto va bene “il gusto del delitto” ma che non si arrivi mai al “delitto del gusto”! Ho deciso, quindi, di proporvi una mia rivisitazione un po’ “nordica” del panino del Frank con senape e crauti. Lo so, non
è molto originale ma provate ad immaginare la scena: una giornata un po’ “difficile”, una certa “malavoglia”, il cielo più grigio che azzurro…e davanti a voi, a casa al calduccio, un bel panino fragrante, la salamella che sfrigola sulla piastra e fa quella bella crosticina bruna, la cremosità della senape e il sapore acidulo e deciso dei crauti bollenti. Unite armoniosamente tutti gli ingredienti, prendete in mano il panino ben caldo e date un primo morso: un tripudio di gusto e di godimento. Prima di proseguire nella degustazione, stappate una birra freschissima e mandate giù un bel sorso…a questo punto la giornata è già migliorata, i vostri sensi sono tutti coinvolti e in men che non si dica avrete finito panino e birra! Provatelo anche voi, certo non serve essere cuochi provetti…se, invece, preferite rimanere fedeli alla versione del Frank…ben venga! L’importante è capire che anche un semplice panino con la salamella può diventare un’esplosione di gusto e lasciarvi in bocca il sapore di Milano! Taac! Ah! Dimenticavo! Leggete anche il libro, mi raccomando, non pensate solo a mangiare, dai!!!! Vi aspetto alla prossima!

31/03/2021

IL COMMISSARIO AMBROSIO E LE UOVA STRAPAZZATE AL POMODORO

Per il libro di cui vi voglio parlare oggi, torniamo a Milano, la Milano di metà degli Anni Settanta, quella avvolta dalla nebbia, umida e malinconica, raccontata da Renato Olivieri (1925 – 2013). Olivieri, di origini venete, si trasferisce nella metropoli lombarda a 14 anni e lì vive fino alla sua morte. Impara fin da subito ad amare questa città e ne fa uno dei “personaggi” dei suoi romanzi. Giornalista e scrittore, incontra il successo grazie al protagonista dei suoi gialli, il commissario Ambrosio, di cui scrive per un ventennio, dal 1978 al 1998, e grazie al quale vince anche degli importanti premi letterari, fra cui l’ambito “Premio Scerbanenco” nel 1993. Amante del bello, conoscitore dell’arte e della natura umana, introverso, Olivieri “passa” queste sue caratteristiche ad Ambrosio e lo rende uno dei poliziotti più famosi nel panorama dei gialli italiani, interpretato al cinema dal grande Ugo Tognazzi nel film “I giorni del
commissario Ambrosio”, per la regia di Sergio Corbucci. L’esordio di Ambrosio avviene nel 1978, quando esce il primo libro che lo vede protagonista: “Il caso Kodra”. In una fredda sera di gennaio, a Milano (ovviamente!), una donna viene investita da un’auto e lasciata sul bordo della strada, di fronte al palazzo in cui viveva. Morirà più tardi al Policlinico, pronunciando una parola incomprensibile, simile a Pola, Paola, Paolo. Non ci sono testimoni e il caso dovrebbe essere archiviato come semplice ed ignobile omissione di soccorso…dovrebbe…sì, perché al vicecommissario Giulio Ambrosio qualcosa non quadra. Inizialmente si interessa della morte della misteriosa signora Anna Kodra, vedova e sola al mondo, unicamente in relazione alla via in cui abitava, via Catalani all'angolo con via Porpora, situata in una zona che lo riporta al passato. Poi, però, a poco a poco capisce che quello che sembra un caso di morte accidentale è un vero e proprio omicidio. Sostenuto dal commissario capo Massagrande, suo superiore, e dall’aiuto dell’affascinante Emanuela, giovane infermiera che ha assistito la vittima prima che morisse (e con la quale si mette a flirtare), Ambrosio sfodera le sue grandi doti investigative e inizia una vera e propria indagine. Cercando nella vita della signora Kodra finirà spesso avvolto dalla nebbia fitta, sia in senso figurato che in senso effettivo, e si ritroverà a dover scavare nel
passato per poter capire il perché, il come e il chi. Ambrosio ha un metodo tutto particolare di gestire il caso: ha una curiosità innata che lo spinge a fare domande su domande alle persone coinvolte e a ritornare nei luoghi che diventano parte integrante della matassa che cerca di dipanare. I vicini di casa, l’ex datore di lavoro, il presunto amante…tutti devono fare i conti con la tenacia di Ambrosio e con i suoi pacati ma efficaci interrogatori. Non vado oltre ma vi invito a leggere questo libro, a mio avviso godibile e scritto davvero bene, capace di coinvolgere e di regalare qualcosa anche ai lettori più esigenti. E adesso che vi ho presentato scrittore e protagonista, vi chiederete se possiamo parlare anche di gusto…ebbene sì! Ambrosio è un estimatore della buona cucina e sa bene cosa vuole. Sceglie locali dove sa che può mangiare e bere bene, anche quando si tratta di piatti cosiddetti “poveri”. "C’era un locale, mezzo caffè mezzo osteria, in via Lodovico il Moro, lungo il Naviglio Grande, di quelli frequentati da artigiani, bottegai del quartiere e camionisti…Il padrone, più largo che alto, portava intorno al ventre un grembiule bianco da oste, un mozzicone di matita all’orecchio. Data l’ora, quasi le due del pomeriggio, non c’era nessuno. Ambrosio aveva voglia di vino bianco secco e di uova strapazzate al pomodoro…” Ecco, avete capito? Il nostro vicecommissario le ha appena prese di santa ragione, ha appena risolto il caso e rischiato anche la vita e…cosa fa? Porta il principale testimone a mangiare in una trattoria! Fantastico! Questo è uno dei passaggi più belli del libro e non perché si parla di cibo ma perché dimostra quanto il gusto abbia importanza. Dopo una scarica di adrenalina,
dopo un crescendo di tensione, dopo momenti di pericolo e di sofferenza fisica, Ambrosio ha fame di qualcosa di semplice. Vuole ritrovare la “certezza”, la “consapevolezza”, quella che ti fa sentire ancora vivo, capace di gustare un piatto dai sapori decisi e un bicchiere di vino fresco. Le uova strapazzate al pomodoro per me sono un tuffo nel passato, un gusto ed un profumo che mi riportano bambina, a tavola, con la nonna. Lei le preparava ogni tanto, in particolare nei venerdì di Quaresima, perché non si poteva mangiare la carne e per me era una festa! E allora ecco a voi la semplice ma gustosa ricetta: se non l’avete mai assaggiata non sapete cosa vi siete persi!

UOVA STRAPAZZATE AL POMODORO

Ingredienti (per 2 persone): 4 uova extra fresche - Passata di pomodoro – Cipolla - Olio extravergine di oliva- Sale - Pepe

Per prima cosa tritate la cipolla finemente e fatela soffriggere in una padella antiaderente, con un filo

d'olio evo. Quando sarà leggermente dorata, aggiungete la passata di pomodoro e un pizzico di sale. Fate cuocere per circa cinque minuti e, intanto, sbattete le uova in una terrina, con un pizzico di sale e pepe. Aggiungetele al pomodoro e mescolatele, facendo attenzione che non si rapprendano troppo ma che rimangano morbide. Servite insieme a dei crostini di pane e ad un bicchiere di vino bianco fresco: buon appetito!


25/03/2021

JACK TAYLOR: INDAGINI E WHISKEY NELLA VERDE IRLANDA

La fantastica voce di Fiorella Mannoia canta “Il cielo d'Irlanda è un oceano di nuvole e luce…” e questa settimana facciamo un viaggio virtuale proprio nella pittoresca e verde Irlanda e andiamo a prenderci un buon caffè a Galway, una delle più grandi città della costa occidentale. È ambientata qui, infatti, la serie televisiva “Jack Taylor”, basata sui libri di Ken Bruen. Lo scrittore irlandese ha scritto diversi romanzi, e non solo con questo personaggio, ma il successo è arrivato proprio grazie alla trasposizione delle avventure di Taylor sul piccolo schermo. Ma cerchiamo di conoscere meglio il protagonista della serie che prende il suo nome…Ufficiale della “Garda”, la polizia irlandese, Jack Taylor (interpretato dal britannico Iain Glen) è
un poliziotto brillante, che ama il suo lavoro ed è abituato a condurre le proprie indagini “alla vecchia maniera”, basandosi sul proprio intuito e affidandosi alle proprie conoscenze ed esperienze, contrario all’utilizzo delle moderne tecnologie. Affascinante, controverso, con una forte e pericolosa dipendenza dall’alcol, Taylor usa spesso delle maniere un po’ troppo brusche ed è incapace di rispettare le regole, pur avendo un suo codice d’onore e un forte senso della giustizia. Dopo aver aggredito un politico a cui stava contestando un illecito, viene espulso dalla Garda e si allontana per un po’ di tempo dalla sua città. Al suo rientro, ritrova vecchi amici e vecchi nemici, fa nuove conoscenze e si scontra con i fantasmi del suo passato…e decide di guadagnarsi da vivere (e da bere!) facendo la cosa che gli riesce meglio: il segugio! E così si reinventa investigatore privato e si ributta nella mischia. Accanto a lui troviamo sempre il giovanissimo e fidato Cody, aspirante detective che prova un misto di ammirazione e pietà nei confronti di quell’ex
poliziotto che beve troppo, ogni tanto fa a cazzotti e sembra non voler ragionare ma è capace di risolvere anche i casi più complessi, riuscendo sempre a sorprenderlo, nel bene e nel male. Nelle sue indagini, Jack è aiutato anche da Kate Noonan, poliziotta e vecchia amica, con la quale potrebbe “scattare” quel qualcosa in più che però rimane bloccato dall’incostanza di Taylor e dalle sue troppo frequenti bevute. Sullo sfondo, come dicevo, la città di Galway, di cui ci viene presentata la solare bellezza alternata all’oscurità dei bassifondi malfamati, e la fierezza dei suoi abitanti legati alla terra, al mare, alle tradizioni, e soprattutto al loro essere irlandesi. Nei casi che vengono affrontati da Jack vengono presentate le speranze di chi vorrebbe cambiare il mondo, contrapposte alla rassegnazione di chi pensa che la vita non abbia più niente da offrire, e tutto questo lo ritroviamo nello stesso Taylor, divorato da una dipendenza dalla quale non riesce (o non vuole?) guarire eppure attaccato tenacemente alla vita ed alla giustizia, un uomo dall’animo “spezzato” ma dal cuore grande, che spesso piange davanti alle brutture ed alle sofferenze degli altri e si arrabbia quando vede i deboli sfruttati e perseguitati dai più forti. Al momento la televisione irlandese ha prodotto tre stagioni e sembra debbano iniziare a girare la quarta. Da noi, invece, gli episodi sono andati in onda (e continuano ad andare in onda) a “singhiozzo” ed in orari e giorni sempre diversi (…infatti non sono ancora riuscita a vederli tutti! Spero di riuscirci prima o poi!) Per quanto riguarda le edizioni in italiano dei romanzi di Bruen…beh! Le sto cercando e anche questa non sembra impresa da poco…ma tranquilli: non demordo! Spostandoci sul “fronte” del gusto, come potete intuire, posso solo dirvi che non è facile vedere il nostro Jack alle prese con un vero e proprio pasto, anzi! A parte le patatine fritte e un piatto di uova e
bacon a colazione, quando si ricorda di farla, lo si vede sempre e solo bere…ovviamente whiskey rigorosamente Irish alternato a qualche boccale di Guinness! Quindi, non potendo proporvi di andare in un pub tutti insieme (!), ho deciso di proporvi qualcosa di tipicamente irlandese che ho avuto la fortuna di assaggiare in loco, durante un fantastico viaggio di lavoro di tanti (troppi) anni fa nel sud dell’Irlanda: l’Irish coffee. Si tratta di un caffè caldo, servito con panna, zucchero e whiskey. Gli
irlandesi lo bevono abitualmente e, in effetti, in alcune giornate fredde e piovose è proprio indicato, perché scalda non poco! Molti lo paragonano al nostro vin brulè ma è molto più alcolico, credetemi. Vi confesso che, quando l’ho assaggiato per la prima volta, sono stata contenta che fosse nel bar dell’hotel in cui alloggiavo, perché così ho dovuto solo trascinarmi all’ascensore, aprire la porta della mia camera e stramazzare sul letto!!! Secondo la tradizione questa bevanda venne creata nel 1943 da Mr Joe Sheridan, chef di un ristorante di Foynes. Pare che una notte all’aeroporto giunse un gruppo di viaggiatori, arrabbiati e infreddoliti a causa della cancellazione del loro volo per il maltempo. Per aiutarli a scaldarsi e per cercare di calmarli, Sheridan servì loro un caffè forte, zuccherato, corretto con whiskey e guarnito con della panna. Fu un successo! Da quel momento la calda e confortante bevanda iniziò ad essere preparata abitualmente dallo stesso Sheridan e venne “esportata” in tutto il mondo, pur rimanendo tipicamente irlandese. (Nel 1988, l'Autorità Irlandese degli Standard Nazionali pubblicò lo standard di preparazione dell'Irish Coffee, noto sotto la voce "I.S. 417: Irish Coffee"). A questo punto direi che, se ancora non l’avete fatto, dovete assolutamente assaggiarlo. Prepararlo non è difficile, ve lo assicuro, si tratta solo di seguire attentamente i pochi e semplici passaggi indicati nella ricetta originale. Magari gustatelo leggendo o guardando in TV le avventure di Jack Taylor…ma senza esagerare, altrimenti vi ritroverete ubriachi in men che non si dica!

IRISH COFFEE

Ingredienti: 5 g di zucchero di canna (un cucchiaino o una bustina) - 90 ml di caffè bollente - 40 ml di whiskey irlandese - 30 ml panna fresca liquida (a piacere cannella o noce moscata per guarnire).

L'Irish coffee si realizza con la tecnica “build”, cioè direttamente nel bicchiere: preparate il caffè con la moka, meglio se lungo. Versate il whiskey, il caffè bollente e lo zucchero in un bicchiere capiente precedentemente riscaldato con acqua bollente, e mescolate facendo sciogliere bene lo zucchero. Inserite la panna fresca nello shaker e agitate per circa dieci secondi. Fatela riposare un momento e poi versatela piano piano nel bicchiere, magari aiutandovi con un cucchiaino, appoggiandolo alla parete del bicchiere con il dorso rivolto verso l'alto. Se volete potete guarnire con una spolverata di cannella o di noce moscata. Servite ben caldo e... Sláinte (che in gaelico significa “salute”)! 

19/03/2021

LAW & ORDER: INDAGINI AL GUSTO DI CAFFÈ

Alzi la mano chi non ama il caffè! Già, siete davvero pochi! “Il caffè è un piacere…” recitava una famosa pubblicità ed è proprio così. Questa bevanda dal gusto robusto e dall’aroma avvolgente è, per molti, sinonimo di socialità, di relax, di intervallo. La pausa caffè (o coffee break per chi preferisce!) è ormai parte integrante della giornata lavorativa di ciascuno di noi, viene inserita obbligatoriamente nei convegni, negli eventi formativi, nelle “riunioni-fiume”…persino in questi tempi di lavoro agile (o smart working sempre per chi preferisce!) ci ritagliamo dei momenti per concederci una tazzina di caffè. Al bar, al distributore automatico, con la macchinetta o con la classicissima moka…ognuno di noi ha le sue preferenze e non rinuncerebbe mai a bersene una o più tazze. Non starò a tediarvi con tutte le varie nozioni e informazioni circa questa famosa bevanda, vorrei, però, condividere alcune curiosità che ho scoperto leggendo qua e là, un po’ sulla carta un po’ on line. Anzitutto non è ancora ben chiaro quando il caffè ha fatto la sua apparizione nel mondo: la cosa certa è che gli archeologi ne hanno trovato traccia in scritti risalenti al 900 D.C. in cui si parlava di un suo utilizzo in medicina. Fra miti e leggende legate alla sua scoperta, la più diffusa e verosimile pare sia quella che racconta di un pastore etiope di nome Kaldi. Egli osservò che il suo gregge era molto attivo e dormiva meno dopo aver ingerito delle bacche rossastre, ossia le bacche di caffè, e così decise di assaggiarle, scoprendo il loro effetto corroborante. A poco a poco l’usanza di utilizzare queste bacche come cibo energetico si diffuse sempre di più tra la gente del luogo e ben presto dall’Etiopia si diffuse nelle zone
limitrofe. La prima piantagione di caffè sorse nello Yemen, dopodiché la coltivazione si diffuse progressivamente anche in Arabia e in Egitto. Il caffè come bevanda divenne ben presto una vera e propria abitudine in diversi paesi del Medio Oriente e da lì venne fatto conoscere in tutto il mondo. In Europa arrivò nel XVII° secolo, grazie ai traffici dei mercanti veneziani, e, prima di diventare famoso e di venire apprezzato, dovette anche combattere contro la diffidenza di chi lo chiamava la “bevanda del diavolo”. Erano molti, infatti, i sacerdoti che facevano pressioni affinché il Papa, Clemente VIII°, ne vietasse l’uso. Prima di farlo, però, il pontefice volle assaggiarlo e, contrariamente a chi ne sosteneva la “malvagità” lo apprezzò tanto da iniziare a consumarlo abitualmente e da contribuire alla sua diffusione (ah! Benedetto gusto!!). Da quel momento nacquero i primi “caffè”, botteghe “antenate” dei bar, in cui si poteva consumare quella che sarebbe diventata una vera e propria “bevanda sociale”. Il seguito vi invito a scoprirlo da soli…lo troverete davvero interessante, credetemi! Ma veniamo a noi…vi starete chiedendo come mai oggi ho iniziato il mio post parlandovi proprio del caffè…no, tranquilli, non ho bevuto troppo caffè e non sono diventata matta (beh! Un po’ lo sono sempre stata…ma questa è un’altra storia!) …per spiegarvelo vi farò una domanda: quante sono le tazze di caffè consumate dai vari poliziotti, detective, investigatori e
affini protagonisti di libri, film e serie TV? Non riuscite a quantificarle, vero?!? Ovvio, perché si tratta di un numero infinito! Tanti dei protagonisti di cui vi ho parlato nel mio blog ne bevono…alcuni fin troppi! Se si parla di libri o telefilm italiani vediamo i nostri eroi di turno consumarlo a casa, al bar o all’immancabile distributore automatico (con tutte le smorfie del caso!). Se ci spostiamo in un Paese europeo le tazze iniziano a diventare più grandi ed il caffè si allontana dalla nostra “versione”. Ed infine arriviamo oltreoceano e troviamo quella che, almeno a me, sembra una “brodaglia scura” ben lontana dalla nostra concezione di caffè espresso! I vari detective o ispettori si siedono alle loro scrivanie e si riempiono una tazzona dall’onnipresente caraffa di vetro, offrendone a destra e a manca…sono in auto per un appostamento e hanno l’immancabile bicchiere con coperchio…si trovano sulla scena del delitto e arriva l’agente di turno con ciambelle e bicchieri di caffè caldo per tutti…vanno ad interrogare testimoni e sospettati e accettano “solo un caffè”…pranzano al bancone di una tavola calda e mangiano uova e bacon o hamburger e patatine bevendo caffè…Gli esempi sono molteplici e verrebbe da pensare che, in pratica, il caffè dovrebbe essere inserito di diritto nel cast di ogni film o telefilm e nell’elenco dei personaggi di ogni libro made in USA!!! Pensate, per esempio, ad una qualsiasi serie televisiva americana: è difficile vedere uno dei protagonisti mangiare tranquillamente, a meno che non si tratti di un qualcosa preso e consumato “al volo”, ma ogni episodio ha almeno una delle scene che vi ho elencato sopra! A questo proposito vorrei parlarvi oggi di una delle serie TV americane più famose e longeve: “Law & Order”. Nata nel 1990 dalla mente di Dick Wolf, suo creatore e oggi uno dei produttori più affermati della tv statunitense, questa serie mette insieme per la prima volta due dei generi più amati dal pubblico: il poliziesco e il “legal drama”, ispirandosi spesso a fatti realmente accaduti. L’inedito mix di indagini guidate dai poliziotti, che davano poi spazio anche alle conseguenze legali in tribunale, conquistò immediatamente i telespettatori, dando vita a un mastodontico “franchise crime” che, ad oggi, conta svariati “spin-off” e quasi 1200 episodi in tutto. Nel
cast si sono alternati diversi attori (fra gli altri Jerry Orbach e Chris Noth), mentre altri sono stati presenti per tutte le 12 stagioni. L’elemento chiave, però, è rimasto sempre lo stesso: l’alternanza fra indagini “sul campo” e dibattiti e arringhe nell’aula di un tribunale. A questo si aggiunge il lavoro di squadra fra polizia e pubblico ministero e, soprattutto, l’ambientazione nella Grande Mela. E mentre il successo della serie “madre” aumentava, nascevano gli spin-off. Fra gli altri “Law & Order - Criminal Intent”, con il fantastico duo formato da Vincent D’Onofrio e Kathryn Erbe, “Law & Order L.A.”, ambientato a Los Angeles e “Law & Order – UK”, che sposta la scena a Londra, facendo conoscere una diversa gestione processuale. E, soprattutto, “Law & Order - Special Victims Unit”, l’unica “derivazione” ancora attualmente in onda che, con le sue 22 stagioni, è diventato il titolo più longevo di tutto il franchise. La serie, nata nel 1999, segue le vicende dell’Unità speciale della polizia di Manhattan, specializzata in crimini a sfondo sessuale, in particolare a quelli rivolti a bambini, anziani e giovani. Nonostante le trame, spesso davvero molto crude, la serie ha avuto un immediato e duraturo successo, anche grazie alla chimica fra i due protagonisti, gli investigatori della polizia di New York Olivia Benson e Elliot Stabler, interpretati rispettivamente dai bravissimi Mariska Hargitay e Christopher Meloni. E voi? Fra i diversi spin-off, qual è quello che preferite? Sinceramente ho visto alcune stagioni di tutte le varie versioni e devo ammettere che, pur apprezzandole tutte, ho amato tantissimo “L&O – Criminal Intent” (e Vincent
D’Onofrio!). Il modo quasi subdolo dell’approccio psicologico con cui il magnifico detective Goren, affiancato dalla paziente collega Eams, arriva ad inchiodare il colpevole di turno è a dir poco geniale! Goren/D’Onofrio ha una cultura sconfinata, è acuto e meticoloso, capace di entrare nella mente del criminale di turno, immedesimandosi e arrivando a cogliere le emozioni e gli impulsi più nascosti, fino a farlo crollare. Ovviamente, come tutti i più brillanti detective, non potrebbe nulla senza il prezioso supporto professionale e umano della sua partner e la fiducia del suo capo, pronto a coprire le sue scorrettezze burocratiche per permettergli di risolvere i vari casi. La serie è andata in onda per 10 stagioni e poi, per vari motivi legati anche all’inevitabile avvicendarsi degli attori protagonisti, è stata sospesa. Le repliche continuano ad essere trasmesse e seguite su diversi canali specializzati nel genere (Giallo e Top Crime per citarne due)
e “L&O”, nelle diverse versioni, continua ad avere successo. Una curiosità: una delle caratteristiche che contraddistingue tutte le serie di Law & Order è un elemento davvero distintivo e riconoscibile, qualcosa che rende immediatamente chiaro agli spettatori che cosa stanno guardano. È un suono di pochi secondi, una specie di “dun – dun” o “chung – chung”, rielaborato digitalmente e sovrapposto ad altri suoni per ottenere qualcosa di metallico e altamente simbolico. Viene utilizzato come raccordo nei cambi di scena dei vari episodi, per evocare un’atmosfera ben precisa. L’effetto sonoro, divenuto letteralmente iconico, è opera di Mike Post, celeberrimo compositore delle colonne sonore di numerose serie tv, e in tanti hanno ipotizzato che il musicista volesse riprodurre un suono ben preciso, come il martelletto del giudice in tribunale o la chiusura
metallica di una cella o ancora i colpi di una pistola con il silenziatore…Post non si è mai sbilanciato…chissà se qualcuno ha indovinato o se si tratta di qualcosa di completamente diverso? Fatto sta che è un suono ormai inconfondibile e legato indissolubilmente a tutti gli episodi delle tante serie. A voi piace? Fatemelo sapere e, se siete fra i pochi che non hanno mai visto nemmeno un episodio dei vari “L&O”, non indugiate e rimediate subito! Sceglietene una e fatevi una bella maratona-TV…ah! Dimenticavo: se vi viene sonno basterà bere un buon caffè!!! Vi aspetto la prossima settimana.


03/02/2021

GIALLI CULINARI – Racconti “gastronoir” alla maniera di Hitchcock

Mi sono imbattuta quasi per caso in questo piccolo libro dal titolo molto curioso…e neanche questa volta sono riuscita a resistere: ho dovuto prenderlo e leggerlo! Una sola parola: fantastico! Dunque…vi piacciono i film di Hitchcock? Vi piace il sottile filo di humor che inserisce in tutte le sue trame? Anche voi avete trattenuto il fiato nelle scene piene di suspense che solo lui sapeva girare? Allora non potete fare a meno di leggerlo! L’autrice, Rosalba Graglia è una giornalista torinese laureata in storia con una passione per l’architetto Antonelli (sì, quello della Mole!), per Flaubert, per Truffaut e, ovviamente, per Hitchcock! Scrive di viaggi e di enogastronomia, collabora con diverse testate nazionali ed è autrice di guide turistiche. “Gialli culinari” è stato pubblicato nel 2017 ed è stato molto apprezzato dagli amanti del genere. Si tratta di nove brevi racconti
“noir”, anzi, come dice il sottotitolo “gastronoir”, un po’ surreali e tutti rigorosamente ispirati ai film del “maestro del brivido”, appunto. Le protagoniste sono tutte donne che vivono situazioni un po’ strane; le loro storie contemporanee riprendono le atmosfere di alcuni dei grandi capolavori hitchcockiani e hanno tutte un finale surreale, assurdo, spiazzante. Il tutto con un tocco di ironia che non guasta e “alleggerisce” un po’ il dramma. Qualche esempio? Beh! C’è Madeleine, scialba segretaria che si trasforma in una blogger di successo, ispirata all’affascinante protagonista di “Vertigo”. E poi c’è la titolare di una scuola di cucina chiamata “Frenzy”…scelta non propriamente felice! In “La donna che sapeva troppo”, invece, incontriamo una ghost writer stanca di vivere nell’ombra che cerca il modo per farsi conoscere. Nell’episodio intitolato “La finestra sul cortile” poi conosciamo la titolare di una graziosa caffetteria che muore (letteralmente!) di invidia per il successo di un locale che le fa concorrenza. E ancora si va avanti con gli altri racconti ispirati a “Rebecca”, a “Psycho”, a “Nodo alla gola”…uno più accattivante dell’altro, scritti in modo semplice e scorrevole. E dopo ogni racconto l’autrice ha inserito la trama del film a cui si è ispirata, inserendo anche qualche piccola curiosità. Insomma si tratta di una lettura piacevole, veloce e “gustosa”, proprio come piace a me. Non ho scelto nessuna delle ricette inserite nel libro perché mi sembravano troppo pericolose (!!!), quindi stasera non vi lascio nessuna ricetta…ma non temete: ho preso qualche spunto che sicuramente mi servirà quando nel blog affronteremo i film di Hitchcock. Nel frattempo vi consiglio di guardarne (o riguardarne) qualcuno, almeno i più famosi, magari bevendo una tazza di cioccolata calda o una tisana rilassante, in questo periodo è quello che ci vuole...ma mi raccomando: preparatevela da soli e controllate bene tutti gli ingredienti…non si sa mai!!! Alla prossima settimana.



27/01/2021

IL GIARDINO DELLE BELVE: UN GIALLO NELLA BERLINO DEL 1936

Oggi vorrei proporvi un libro scritto da Jeffery Deaver, un autore di cui vi ho già parlato un paio di anni fa attraverso il suo personaggio più famoso, il detective tetraplegico Lincoln Rhyme. Deaver, infatti, non scrive solo delle indagini di Rhyme, anzi! Ha scritto anche diversi romanzi, con i quali ha ottenuto molto successo. Uno di questi è “Il giardino delle belve”, uscito in Italia nel 2008. La trama è fin da subito molto avvincente…Siamo a New York, nel 1936, l’anno delle Olimpiadi di Berlino. Mentre tutto il mondo assiste con angoscia all’ascesa di Hitler, l’FBI arresta un killer di origine tedesca, Paul Schumann. In cambio dell’immunità per i crimini commessi, i federali gli chiedono di uccidere Reinhard Ernst, uomo di fiducia del Führer, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo, costi quel che costi. Schumann non si fa problemi ad accettare, anche e soprattutto perché nella sua carriera (se così si può definire!) ha sempre seguito una sua “regola”: eliminare solo persone pericolose, perfide, persone che fanno del male ai più deboli e indifesi, insomma la “feccia della feccia”. Per questo motivo non si è mai sentito in colpa e, sempre per questo motivo, accetta la missione che gli viene affidata. Parte per la Germania, per raggiungere la città di Berlino in subbuglio per le imminenti Olimpiadi. Ha solo 48 ore di tempo per portare a termine il suo incarico. E non dovrà fare i conti “solo” con l’imponente sistema di sicurezza nazista…Schumann si troverà di fronte ad un segugio di prima categoria, il detective Willy Kohl, poliziotto integerrimo e meticoloso, deciso a fermare il killer venuto dall’America che sta lasciando una vera e propria scia di
sangue nella sua città! E così, pagina dopo pagina, in un crescendo di suspense e colpi di scena, il lettore si trova catapultato in una caccia serrata, dove spesso il bene e il male si confondono, la giustizia perde i suoi contorni e la paura permea ogni strada, ogni momento e ogni azione. Il romanzo è scorrevole e coinvolgente e mette in evidenza l’accurata ricerca e preparazione di Deaver, che ci ha lavorato due anni prima di consegnarlo al suo pubblico. È un thriller che trasuda di storia, un racconto che porta ad immedesimarsi ora in uno, ora in un altro dei protagonisti fino a non sapere più per chi parteggiare. Per Schumann che, comunque, al di là della sua “missione” è pur sempre un assassino? O per Kohl ignaro del fatto che, fermando il killer, asseconderà l’ascesa di Hitler? Beh! Vi consiglio di leggerlo e poi, forse, potrete rispondere a queste mie domande! Nel frattempo ho fatto anch’io una piccola “ricerca”. Negli Anni Trenta, in molti dei locali alla moda, gli aristocratici e gli ufficiali tedeschi amavano sorseggiare dei cocktail ai quali davano nomi decisamente originali, nel tentativo di differenziarli dai drink made in USA. In occasione delle Olimpiadi del 1936 ne crearono uno particolarmente “corroborante”, forse dedicato proprio agli atleti che dovevano gareggiare, il knickebein, che significa “gamba rotta” (ma non ho capito cosa c’entra…forse perché dopo averlo bevuto si camminava storti?!? Mah!) Fatto sta che sopra ai vari strati composti dai diversi liquori, troneggiava un tuorlo d’uovo fresco: un bel beverone per chi doveva tirarsi su. Inizialmente tutti gli ingredienti venivano semplicemente sovrapposti, poi nel tempo si è preferito shakerarli e il cocktail è
arrivato fino ai giorni nostri con diverse varianti. Il successo è stato tale che è stato creato anche l’omonimo cioccolatino, con un ripieno alcolico, che in Germania è molto conosciuto e consumato. Ammetto di non aver voluto riprodurre il cocktail (non amo il genere), del quale, però, ho trovato la ricetta originale che vi propongo. Se volete potete cimentarvi. Io, intanto, sto cercando di procurarmi i cioccolatini…se li trovo poi vi aggiorno! Nel frattempo se provate questo “intruglio” fatemi poi sapere se vi è piaciuto! Prosit!

KNICKEBEIN

Ingredienti: 1 bicchiere di maraschino - 1 tuorlo d’uovo fresco - 1 bicchiere di crema di vaniglia - una

spruzzata di cognac o di angostura

I liquori devono essere versati separatamente gli uni sopra gli altri. (la versione contemporanea è shakerata e completata con del ghiaccio).